Gli animali randagi e provenienti dai rifugi dell'Ucraina non possono entrare in Italia. Con una circolare che ha immediatamente causato un forte dibattito nazionale, il Ministero della Salute italiano ha chiarito che «l’introduzione di cani e gatti ospitati nei rifugi e di cani e gatti randagi avente origine ucraina non è al momento consentita sul territorio». Una disposizione «necessaria», spiega il Ministero nel documento stesso, proprio a seguito delle iniziative attivate dalle associazioni per far entrare questi animali sul territorio italiano.
La decisione del Ministero parte da un dato scientifico: in Ucraina è ancora diffusa la rabbia, una delle zoonosi più temute al mondo, mentre l'Italia da lungo tempo ne è libera. Tuttavia questa scelta sembra facilmente porta a un dibattito relativamente agli animali che non afferiscono a una persona in particolare e, dunque, a una riflessione su un fenomeno che in Italia è ancora radicato: il randagismo.
Scienza e cultura, come abbiamo potuto osservare negli ultimi due anni, si scontrano spesso sul terreno della politica, con risultati il più delle volte incoerenti. «Sono ben presenti a tutti le immagini dei rifugiati che scappano con cani e gatti e di certo i politici si sono trovati nella situazione di non poter dire alle persone in fuga dalla guerra che per entrare avrebbero dovuto lasciare fuori i loro animali», commenta a Kodami la vicepresidente di Stray Dogs International Project, Clara Caspani.
Stray Dogs è un progetto internazionale che nasce nel 2015 con l'obiettivo di favorire in Italia e nel resto del mondo la convivenza tra cani ed esseri umani. «Equilibrio è la nostra parola d'ordine – dice Caspani – e la rabbia certamente è un problema da non sottovalutare. Tuttavia quella attuata da Ministero è una contrapposizione non logica e non razionale. Se la preoccupazione è la zoonosi si sarebbe dovuto permettere l'ingresso solo ai cani vaccinati, una prospettiva non attuabile vista la contingenza storica. Perciò hanno deciso, come spesso accade, di agire in modo incoerente, escludendo una categoria, quella dei randagi e degli ospiti dei rifugi, a beneficio di un'altra».
Una decisione che ha lasciato perplessi sia gli esponenti del terzo settore che gli esperti di medicina veterinaria. «E' vero che tra i randagi c'è una maggiore probabilità di diffusione della malattia, tuttavia per questa considerazione bisogna tener conto di due fattori – spiega Laura Arena, veterinaria esperta di benessere animale e membro del comitato scientifico di Kodami – Il primo è culturale e riguarda il modo con cui concepiamo il rapporto con gli animali d'affezione. In molti Paesi, tra cui l'Italia, infatti, soprattutto i cani sono abituati a restare nella casa della loro famiglia e ad uscire per lo più al seguito dei loro umani; si tratta di una concezione molto diversa da quella diffusa nei paesi dell'Europa orientale, dove la differenza tra cane vagante e "cane di casa" è molto più sottile. Per cui una certa fascia di popolazione di cani che hanno una famiglia di riferimento possono essere esposti in ugual misura rispetto ai cani randagi».
«Il secondo fattore – continua l'esperta – è legato alle modalità con cui le persone stanno fuggendo dall'Ucraina». I profughi, come è emerso anche dalle nostre testimonianze dalla frontiera, prima di arrivare in Italia attraversano un viaggio che conta almeno un passaggio intermedio in un altro paese. Secondo i dati in possesso del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, a partire dagli inizi di marzo più di 1,6 milioni di ucraini sono fuggiti in Polonia, Ungheria, Moldavia, Slovacchia, Romania, e da lì una parte si prepara a disperdersi in tutta l'Europa occidentale.
«Si aggiunge quindi una seconda fase di rischio del contagio. Passando attraverso altri Paesi in cui la rabbia è presente, gli animali si possono essere infettati anche al seguito dei rifugiati nei Paesi intermedi- aggiunge Arena – Non dobbiamo dimenticare che anche la Romania, come altri paesi dell'est, è interessata da questa zoonosi. Per questo motivo la tracciabilità tanto delle persone, come dei loro animali deve essere compiuta con la massina precisione, nell'ottica di arginare il potenziale ritorno della rabbia nel nostro Paese».
«La gestione di animali che vengono da contesti in cui è diffusa la rabbia implica un rischio in ogni caso, si tratti di pet, di randagi o cani di canile, tuttavia è necessario attivare ogni sforzo per salvaguardare il benessere degli animali», conclude la veterinaria.
La rabbia: una storia millenaria
La direzione veterinaria del Ministero, usando i dati forniti da enti nazionali ed europei, giustifica questa decisione con la necessità di evitare il ritorno della rabbia in Italia, malattia nota come la «madre di tutte le zoonosi». Questo appellativo non è casuale: «La rabbia è la prima malattia di cui è stato accertato il salto di specie dall'animale all'essere umano, diventando così la prima zoonosi della storia dell'uomo», spiega la veterinaria Laura Arena, membro del comitato scientifico di Kodami.
Le prime descrizioni di sintomi ascrivibili alla rabbia risalgono all'incirca al 2000 a.C. e continuano fino ai giorni nostri. Violenza cieca, aggressività immotivata, bava copiosa: sono i segni che l'immaginario comune lega a questa infezione sin dai suoi esordi.
La rabbia è indotta da virus appartenenti al genere Lyssavirus, non è un caso che questo nome sia stato ispirato da Lyssa, la dea greca della furia cieca, la stessa che nel racconto omerico anima lo scontro tra Ettore e Achille all'ombra delle mura di Troia.
La violenza comunemente associata alla rabbia non è soltanto una trovata letteraria ha anzi una giustificazione scientifica legata alle modalità di trasmissione e alla progressione della malattia. «Il virus si insedia nelle ghiandole salivari dell'ospite e nel momento in cui questo morde un altro mammifero avviene la trasmissione del virus che attraverso la saliva penetra nella ferita, ascende i nervi, e s'insinua nel sistema nervoso – chiarisce Arena – L'aggressività riscontrata negli animali infetti, compreso l'uomo, serve proprio a permettere al virus di trovare un nuovo ospite sano prima della morte del precedente».
La rabbia è una malattia infettiva che colpisce il sistema nervoso centrale dei mammiferi e se non trattata tempestivamente la letalità è pari al 100%. Le fasi che la caratterizzano sono tre. La prima è caratterizzata da sintomi aspecifici, cioè comuni a molte malattie, come febbre e dolori muscolari. Durante la seconda fase emergono i sintomi identificativi della malattia, tra questi l'idrofobia, dal greco "paura dell'acqua".
«L'idrofobia è il risultato di un laringospasmo, cioè uno spasmo doloroso che porta l'animale a rifiutare l'ingestione di qualsiasi liquido, compresa la sua stessa bava. E' per questo che da sempre i cani ammalati sono identificati proprio dalla presenza copiosa di bava – chiarisce Arena – Una volta che i sintomi si manifestano la diagnosi è quasi sempre infausta».
Quasi tutti i mammiferi possono contrarre la rabbia ma a renderla pericolosa per l'essere umano sono solo alcune specie che con lui condividono l'habitat: volpi, cani e gatti.
Le volpi rappresentano infatti un serbatoio silvestre della malattia, mentre i cani e gatti la trasmettono in contesti urbani.
«In Italia nel tentativo di eradicare la malattia è stata fatta una importante campagna vaccinale tra gli animali domestici, tanto che oggi la vaccinazione antirabbica è obbligatoria solo per la movimentazione degli animali all'estero. Anche in ambito silvestre negli anni Sessanta è stata possibile la profilassi grazie a bocconi con il siero da fare mangiare alle volpi», sottolinea la veterinaria.
L'Organizzazione mondiale della sanità animale (Oie) ha dichiarato l'Italia libera dalla rabbia domestica ma non da quella silvestre: nel 2008 la malattia è ricomparsa nel nordest italiano a seguito dell'epidemia che ha colpito diversi paesi dell'est Europa. L'Ucraina è tra questi, qui infatti vengono registrati ancora focolai di rabbia tra gli animali d'affezione.
Secondo i dati forniti dal Centro di referenza nazionale della rabbia dell’Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie sono 265 i casi riscontrati negli animali domestici dell'Ucraina, di cui 109 nei cani e 130 nei gatti. In generale, la distribuzione dei casi è omogenea su tutto il territorio, lasciando ipotizzare agli esperti «una circolazione diffusa dell’infezione nel serbatoio selvatico con frequenti episodi di spillover nei carnivori domestici».
I cani di famiglia e gli altri: una differenza culturale
Nonostante i rischi del viaggio, moltissime persone in fuga dall'Ucraina hanno dunque scelto di portare con sé i propri animali domestici e in considerazione di questa urgenza la Commissione europea ha invitato i Paesi membri ad accoglierli anche senza il passaporto europeo che certifica, tra le altre cose, proprio l'avvenuta vaccinazione antirabbica.
Il primo marzo 2022 il Ministero della Salute italiano ha quindi permesso l'entrata nel nostro paese agli animali privi di passaporto sanitario, ma il timore che attraverso l'ingresso di questi cani e gatti possano riaccendersi focolai di rabbia anche in contesti urbani ha spinto il Governo a varare alcune regole.
Se gli animali viaggiano con i loro umani, e hanno microchip e certificato di vaccinazione antirabbica, vengono sottoposti a prelievo ematico per la titolazione degli anticorpi dai servizi territoriali e poi sottoposti a un periodo di osservazione di almeno 3 mesi.
In Italia però possono entrare anche cani e gatti privi di vaccinazione, sempre e solo in compagnia del loro «proprietario»: in questi casi gli animali vengano immediatamente vaccinati e tenuti in isolamento fino alla titolazione degli anticorpi.
A restare esclusi sono i cani randagi e quelli provenienti dai rifugi dell'Ucraina. Questi ultimi, però, sono già stati oggetto di alcune operazioni di salvataggio nei rifugi italiani, come ad esempio gli otto cuccioli portati nel rifugio Enpa di Verona. Proprio in considerazione di queste attività da parte delle associazioni, il Ministero ha chiarito che l'introduzione di animali senza «proprietari» non è consentita.
Nonostante i richiami presenti nella circolare del Ministero della Salute ai dati forniti dai vari enti veterinari nazionali ed europei, la cultura appare quindi un fattore importante nella scelta di escludere i cani e gatti randagi e ospiti dei rifugi dai corridoi predisposti dalle associazione.
«Lavorare sulla base culturale è quello che cerchiamo di fare con Stray Dogs: ci battiamo perché le persone, anche in posizione di vertice, pensano di sapere come gestire i cani e la loro presenza sul territorio quando non è così – commenta Caspani – In nord Europa e nel nord Italia abbiamo perso l'idea di convivere con i cani liberi e abbiamo accumulato un pregiudizio per tutti i cani che vivono al di fuori delle case, compresi quelli dei rifugi».
In Italia si registra uno sbilanciamento del fenomeno del randagismo: con grandi differenze tra Sud e Nord: «Quando la convivenza tra le specie è sbilanciata, e avviene con una gestione poco oculata, i risultati non sono mai felici, per questo bisogna agire tempestivamente sulle necessità pratiche lavorando poi sulla cultura, un processo che mostrerà i suoi effetti solo col tempo».