Gli esseri umani sfruttano un gran numero di animali domestici, ma anche quelli selvatici vengono spesso utilizzati per svolgere diverse mansioni o per finire direttamente all'interno del mercato dei prodotti di origine naturale. E considerando anche gli animali che finiscono vittime di bracconieri o nel mercato illegale di specie selvatiche, la nostra specie al momento continua a sfruttare circa 14.600 specie diverse di vertebrati, ovvero un terzo di quelli presenti in natura (47.000). Un numero enorme, che sta spingendo diverse specie sull'orlo dell'estinzione o ad affrontare pericolosi cali demografici.
Questo dato arriva direttamente da un report che è stato pubblicato lo scorso 29 giugno tra le pagine di Communications Biology, ed è stato realizzato da una equipe di esperti che lavorano in alcune delle migliori università di tutto il mondo. Se si studia inoltre la distribuzione delle specie selvatiche sfruttate dalla nostre specie, è possibile osservare come buona parte di queste provenga dalle aree che presentano ancora una notevole biodiversità terrestre e marina, anche perché la maggioranza delle specie sfruttate commercialmente viene proprio dal mare.
Così fra gli elefanti asiatici utilizzati per il trasporto e i pappagalli brasiliani usati come animali da compagnia, sono in realtà soprattutto i pesci d'acqua dolce e salata gli animali maggiormente sfruttati. Secondo il team di ricerca, più della metà delle specie di vertebrati che gli esseri umani sfruttano vengono cacciati come fonte di cibo anche se in numerose situazioni tale pratica, oltre ad essere illegale, potrebbe persino contribuire alla diffusione di nuovi agenti patogeni.
Così abbiamo diverse specie di pipistrelli e di scimmie che finiscono nei menù di numerosi paesi africani e asiatici, ma anche l'Europa non scherza, con la cattura di diversi uccelli, rettili e molluschi selvatici per la filiera alimentare umano. L'8% delle specie presenti nella lista, inoltre, vengono sfruttate per la caccia o per scopo ricreativo, mentre una minoranza viene utilizzata per la medicina tradizionale o l'abbigliamento.
Per compiere questa ricerca gli studiosi, tra cui l'ecologo marino Boris Worm della Dalhousie University di Halifax, in Nuova Scozia, hanno raccolto dati provenienti direttamente dai database dell'Unione internazionale per la conservazione della natura, meglio nota come IUCN. Questa è un organo direttivo riconosciuto dall'ONU che monitora costantemente insieme alla CITES il commercio, lo sfruttamento e la vulnerabilità delle specie animali e vegetali in tutto il mondo.
Per di più, se venissero presi in considerazione anche gli invertebrati o le piante, la stima di specie sfruttate eccessivamente dall'uomo aumenterebbe esponenzialmente, tanto che gli stessi autori definiscono il compito della CITES e dell'IUCN davvero complicato, visto che col passare del tempo il cambiamento climatico e la crescita della popolazione umana complicheranno ulteriormente la situazione, con la probabile scomparsa di ulteriori specie.
Ma è possibile ridurre il consumo di animali selvatici? Probabilmente sì, assicurano gli scienziati. Il problema però è di matrice culturale, visto che molte popolazioni umane non sembrano essere intenzionati a cambiare dieta, anche se è stato scientificamente dimostrato per esempio che il consumo di determinate specie è nocivo, comporta delle gravi conseguenze ambientali o non ha alcuna validità scientifica, nel caso delle specie sfruttate per la medicina tradizionale.
Se non si inverte la rotta, inoltre, le conseguenze potrebbero essere tragiche, assicurano i ricercatori, sia dal punto di vista ambientale che prettamente umano. L'ambiente naturale sta infatti cominciando a risentire della perdita di biodiversità. Uno scenario desolante, che rischia di impoverire moltissimo gli ecosistemi e i servizi che questi offrono anche alla nostra specie.