La fauna selvatica deve adattarsi alla presenza umana per sopravvivere, quindi è fondamentale comprendere le risposte che le altre specie danno al passaggio degli esseri umani nei diversi contesti. La pandemia, con l'isolamento sociale a cui sono stati obbligati gli esseri umani, ha permesso a un gruppo di ricercatori di osservare come il ritorno di homo sapiens in territori abitati da specie selvatiche abbia influito sul loro comportamento ed è emerso che in condizioni di maggiore intrusione umana, i mammiferi erano meno attivi nelle aree non sviluppate ma inaspettatamente più attivi nelle aree abitate pur mostrando una maggiore attività notturna.
In particolare i carnivori erano i più sensibili, mostrando maggiori aumenti di attività durante la notte che usano come spazio sicuro e lo studio evidenzia davvero l'importanza di concedere loro del tempo in serenità, senza persone che frequentano i loro ambienti.
Gli esperti hanno utilizzato 5 mila foto trappole in diverse parti del mondo per monitorare 163 specie in 102 progetti e lo studio fa luce su come i cambiamenti nel comportamento umano durante e dopo il lockdown abbiano influenzato quello degli animali.
Lo studio dimostra che il comportamento degli animali cambiava in modi diversi a seconda di dove vivevano e di cosa mangiavano. Con l'aumento dell'attività umana nella foresta di Schenck a Raleigh, ad esempio, anche l'attività dei procioni e dei cervi è aumentata insieme ad essa. «Abbiamo scoperto che la principale spiegazione delle differenze nel comportamento degli animali era in primo luogo lo sviluppo del paesaggio – ha sottolineato Roland Kays, uno dei co autori dello studio – Gli animali nelle aree urbane e più sviluppate sono abituati agli esseri umani. A loro non interessa davvero se la presenza degli umani cambia, e talvolta hanno effettivamente aumentato la loro attività quando gli umani hanno aumentato la loro. Ma quelli che vivono nelle zone rurali si sono rivelati molto più sensibili alla maggiore presenza umana».
La pandemia ha dunque offerto ai ricercatori l’opportunità di studiare il comportamento degli animali in modo da separare gli effetti causati dalla presenza degli esseri umani da quelli delle infrastrutture. Condurre lo studio in zone dove non c'era il passaggio di automobili ha concesso di valutare in un secondo momento come appunto cambia la routine delle altre specie nel momento in cui riprende quella umana.
Ad esempio, le specie di piccola taglia sono più tolleranti nei confronti della presenza umana, poiché possono essere meno evidenti rispetto a quelle più grandi e più capaci di spostare l’uso delle risorse all’interno delle loro nicchie più ampie rispetto ad altri. I carnivori di grandi dimensioni e ad ampio spettro corrono un rischio considerevole di mortalità a causa degli esseri umani e quindi hanno mostrato risposte negative per la presenza nel loro areale.
Ma le risposte degli animali sono fortemente influenzate anche dal tipo di attività umana, tanto che sia la caccia o il solo escursionismo, e da fattori urbanistici come la modifica del contesto paesaggistico. Gli animali sono più diffidenti nei confronti delle persone che si trovano in ambienti aperti o modificati dall’uomo rispetto ad aree con abbondante copertura vegetale o con minime modifiche del paesaggio umano. Al contrario, gli animali che vivono in paesaggi fortemente trasformati potrebbero abituarsi alla presenza umana e quindi avere meno probabilità di rispondere ai cambiamenti.
I risultati portano ad una conclusione, in ogni caso: «Gli esseri umani devono prestare attenzione quando pianificano lo sviluppo di nuove infrastrutture che vanno ad invadere contesti naturali poiché gli animali non sono pronti ad adattarsi a un’improvvisa presenza umana – ha sottolineato Kays – Questi animali che vivono in contesti non urbani sono piuttosto sensibili ai nostri movimenti nel loro paesaggio. Nelle aree più sviluppate ciò probabilmente è meno importante, ma negli spazi rurali la nostra presenza può avere un impatto significativo sulla fauna selvatica».
Kays dirige il Laboratorio di ricerca sulla biodiversità del Museo di scienze naturali della Carolina del Nord ed è uno degli oltre 220 ricercatori di tutto il mondo che hanno contribuito allo studio. Lo studio ha visto nascere la raccolta e l’organizzazione di grandi quantità di dati attraverso "Snapshot USA", un sondaggio nazionale sui mammiferi in tutti i 50 Stati.
I dati sono stati combinati con più informazioni da diverse parti del mondo che hanno dato ai ricercatori una visione molto ampia. «Abbiamo telecamere nella foresta pluviale del Borneo e nelle foreste sudamericane e in molti posti in Canada: questa è davvero la forza di questa ricerca: non si tratta di uno studio condotto in un unico luogo ma da un’enorme varietà di posti nel mondo», ha concluso l'esperto.