Tahlequah è un’orca (Orcinus orca). È nata nel 1998 e vive nelle acque del Pacifico nord-occidentale. Il suo nome in codice è J35: così la chiamano i ricercatori del Center for Whale Research, che da anni studiano il gruppo di orche residenti in quel tratto di oceano. “J” è l’iniziale che identifica il suo pod, ossia la sua unità famigliare.
A vent’anni, Tahlequah dà alla luce il suo secondo figlio, una femmina. È il 24 luglio 2018. Mezz’ora dopo il parto, però, la piccola muore. Imperterrita, la madre continua a nuotare, senza mai separarsi da lei. In un viaggio straziante lungo migliaia di chilometri, trasporta il corpo inerte mantenendolo a filo d’acqua con il rostro. Al settimo giorno, altri membri del gruppo iniziano a darsi i turni per far galleggiare la piccola, e permettere a Tahlequah, sempre più stanca, ma tenace, di riposare. Al nono giorno, sul piccolo corpo esanime iniziano a comparire segni visibili di decomposizione. Trasportarlo diventa sempre più difficile. Finalmente, al 17° giorno, dopo aver nuotato per 1.600 km, Tahlequah si rassegna e lascia andare la figlia, affidandola agli abissi. E il mondo intero si commuove.
Soffrire per la perdita di un conspecifico
Anche gli scimpanzé, i delfini e gli elefanti sono stati visti passare del tempo intorno al corpo di conspecifici deceduti, e non solo subito dopo la loro morte, ma anche nei momenti successivi. È vero lutto quello che sperimentano? Andando all’origine della parola stessa, scopriamo che “lutto” viene dal verbo latino lugere, che significa piangere. Il lutto è quel sentimento di profondo dolore che proviamo quando muore una persona a noi cara. È qualcosa che va oltre la semplice emozione, è l’estremità triste dei legami sociali, quella della perdita. Ecco, il lutto è il risultato di una perdita nei confronti di una figura di attaccamento e questa perdita è doppiamente grave, perché fa sì che venga meno una figura di supporto nel momento in cui il supporto è proprio ciò di cui abbiamo bisogno. Il lutto scaturisce da una chiamata nei confronti di una figura di riferimento, che rimane senza risposta.
Noi sappiamo che i meccanismi alla base del processo di attaccamento, fatto di ricerca della vicinanza e reazioni contrariate al momento della separazione, sono strettamente conservati nei mammiferi, e sono simili nelle diverse specie. Nelle specie sociali, in particolare, sviluppare legami di attaccamento è vitale perché aumenta le probabilità di sopravvivenza degli individui e migliora la loro qualità della vita.
La scienza supporta l’esistenza del lutto negli animali non umani
Un numero crescente di evidenze scientifiche supporta l'idea che gli animali non umani possano provare dolore e siano consapevoli della morte. Il primatologo Frans de Waal parla di consapevolezza dell’ineluttabilità, riferendosi ad animali che mostrano chiaramente di essere consapevoli del fatto che l’altro non tornerà più. Come quei cani che, per anni, tornano ogni giorno sulla tomba del loro compagno umano deceduto. Certo, non è ancora chiaro come essi acquisiscano questa consapevolezza. Alla scienza spetta scoprire se si appellano all’esperienza, ad esempio, o a una semplice intuizione.
La dimensione sociale del lutto
Quando muore una persona per noi cara, mettiamo in atto usanze e cerimonie, diverse a seconda delle tradizioni locali. C’è chi proclama tre giorni di lutto, chi si veste di nero e chi, come i calciatori, gioca col nastro nero al braccio. Questi rituali, che rappresentano la dimensione sociale del lutto, esistono anche negli altri animali. Gli elefanti sono stati osservati impegnarsi in rituali di morte espliciti, tra cui coprire il corpo del defunto con rami e terra, sollevare e manipolare le ossa e tornare da lui. Nel 2016, in Africa, è stata videoripresa una scena molto intensa: i membri di tre diverse famiglie di elefanti (Loxodonta africana) si recarono a visitare il corpo di una matriarca defunta, annusandolo con la proboscide, toccandolo e passando ripetutamente vicino ad esso.
Anche i corvi americani (Corvus brachyrhynchos) rispondono alla presenza del corpo di un conspecifico. Inizialmente reclutano altri conspecifici. Poi, si allontanano e mostrano di evitare accuratamente la zona in cui giace il corpo, probabilmente perché la considerano a rischio anche per se stessi. Il biologo americano esperto di comportamento, Marc Bekoff, racconta di gazze (Pica pica) notate avvicinarsi al cadavere di un’altra gazza, beccarlo delicatamente, raccogliere e deporre fili d’erba proprio lì accanto, fare la guardia in piedi, per alcuni secondi, e, infine, volare via. Che senso avrebbero reazioni così profonde, se questi animali considerassero la morte come un evento solo temporaneo?
Abbiamo ancora molto da imparare riguardo agli animali
I rituali sono espressioni sociali peculiari di ogni cultura e religione, e possiamo aggiungere anche di ogni specie. Eppure, alcuni scienziati dubitano della capacità degli altri animali di provare un dolore reale, e rispondere in modo complesso, davanti alla morte. Pensiamo allo zoologo Jules Howard, che, riferendosi a Tahlequah, disse: «Se credete che J35 mostrasse segni evidenti di lutto o dolore, vi state basando sulla fede, non sull’evidenza scientifica».
Invece, probabilmente, ogni specie animale ha il proprio rituale, solo che noi non lo abbiamo ancora colto. La verità è che non sappiamo ancora molto dei comportamenti legati alla morte negli animali non umani semplicemente perché li abbiamo studiati poco.
Nel 2020, un anno così faticoso, al Center for Whale Research è comparso un fiocco azzurro: il 4 settembre è nato J57, il terzo figlio di Tahlequah. Il caso di questa meravigliosa orca ci regale due lezioni importanti: dopo una perdita la vita riparte, e noi abbiamo ancora molto da imparare riguardo agli altri animali.
- Bibliografia
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