Il 27 luglio cade la "giornata internazionale del cane randagio". È ormai una prassi quella di avere giornate dedicate a qualsiasi argomento e i giornali sono sempre pronti a rilanciarle e a parlarne. Le persone, però, non sembrano dare molta importanza agli eventi collettivi, a meno che non si tratti di festività che hanno un lungo passato alle spalle.
Ebbene questa giornata dedicata genericamente ai "cani randagi" per noi di Kodami ha senso se ci consente di parlare del cane in quanto tale come specie e come individuo e riuscire a contribuire – come dal primo giorno abbiamo provato a fare – e a far comprendere a chi ci legge e a chi condividerà questo articolo che l'animale che è al nostro fianco nella vita quotidiana delle città occidentali in primis rappresenta solo il 20% di tutta la popolazione canina che abita nel mondo. E che non necessariamente deve finire accanto a un essere umano in una metropoli.
Proviamo a spiegarci meglio, onde evitare che questo rischi di sembrare un appello alla libertà senza contestualizzare, come sta purtroppo accadendo da qualche anno nella cinofilia moderna che a distanza ormai di anni dalla rivoluzione dell'approccio cognitivo relazionale stenta a trovare nuove formule (leggi studio della ricerca scientifica sempre più presente a cui fare riferimento e maggiore osservazione priva di giudizio) per interpretare il rapporto con il cane e e tende a estremizzare il discorso, mettendo da una parte i "pet" (termine che ormai dagli appassionati e sedicenti esperti viene usato anzi come dispregiativo) e "cani liberi" dall'altra, quasi ghettizzando i primi in una categoria inferiore rispetto ai secondi.
È un dato di fatto – cercando di fare un discorso quanto più equilibrato possibile – che noi occidentali "acculturati" abbiamo un'idea del cane che rappresenta un essere a cui siamo legati da una relazione tendenzialmente d'amore e di supporto. Qualora tale sia riconosciuto, il cane è visto come un individuo, ma comunque generalmente incapace di badare a se stesso, che va guidato in tutte le fasi della vita. Se fosse così per tutti davvero, ciò consentirebbe comunque di vivere in una società che ha le basi sul fulcro della responsabilità nell'adozione, perché di fatto il cane di famiglia è in una relazione di dipendenza verso l'umano.
E' un bene che, soprattutto in Italia, siamo arrivati ad avere moltissime persone che concepiscono il rapporto con il cane come un'esperienza che coinvolge due soggetti e in cui quest'ultimo non è più visto come un oggetto che risponde automaticamente ai nostri desideri. Ma su questo aspetto siamo consapevoli che si aprono molte altre considerazioni e la prima è la deriva attuale – nonostante appunto vi sia molta più cultura cinofila – da parte di chi sceglie di adottare un cane non considerandolo appunto come altro da sé ma un pupazzo privo di emozioni e cognizioni. Motivo principale, del resto, per cui vi sono ancora così tanti abbandoni.
La "lotta al randagismo", come piace tanto chiamarla, dovrebbe infatti partire a monte e non a valle e incidere sulla possibilità di adozione da parte delle persone: continuando a descrivere una realtà di poveri cani lasciati a loro stessi da recuperare per essere adottati è del tutto improduttivo. Ciò che serve è accompagnare con chiare e efficaci spiegazioni ogni persona che intenda far entrare un cane nella sua vita e far desistere chi non è capace, semplicemente. Sì: rimarranno ancora cani nei canili ma solo così, prima o poi, riusciremo a svuotarli senza rientri.
In queste righe, però, ci teniamo a mettere l'accento proprio sul cosiddetto "cane randagio": una definizione che mediamente – tanto in chi ama i cani che in chi nemmeno li considera – scatena un sentimento di pietismo o una reazione di rifiuto che portano, rispettivamente, al concetto di "salviamoli tutti" o "rinchiudiamoli tutti". Del resto come abbiamo scritto in altre occasioni, abbandoni, recuperi, stalli e canili lager continuano a sembrare l'unica "soluzione" possibile. La vita di tanti soggetti liberi, invece, troppe volte diventa un incubo se non si opera in collaborazione perché vengano attuate davvero politiche di tutela.
Già solo il nome della giornata, però, porta con sé come indicazione quella di arrivare a una realtà di "zero cani" per le strade del mondo in considerazione delle condizioni in cui molti animali vivono in paesi del sud del mondo e per la pericolosità sociale legata a malattie come la rabbia che sono trasmissibili agli esseri umani. Insomma nella visione collettiva il "cane randagio" o è un pericolo o è un animale in difficoltà non avendo un referente umano.
Precisiamo allora chi è invece davvero il cane libero: è un animale, come tanti altri, che non nasce nelle nostre case o negli allevamenti ma sul pianeta Terra e la popolazione canina mondiale, sebbene continuino a non esserci dati ufficiali, è rappresentata dall'80% da quattro zampe che vivono "per i fatti loro" e che possono anche avere referenti umani, considerando l'etologia della specie, dalla notte dei tempi legata a Homo Sapiens.
Ciò a cui vogliamo arrivare in questa riflessione è che il problema principale non è se il mondo è abitato da cani "randagi" ma se di quei cani nessuno se ne preoccupa in maniera costruttiva e collaborativa e se la percezione umana nei loro confronti è dettata da sentimenti di aiuto non richiesto (si pensi a cani ferali o semi ferali che non frequentano luoghi abitati e vengono accalappiati e rinchiusi nei canili) o dalla mancanza di un sistema corretto di monitoraggio e re immissione sul territorio per far sì che su questo Pianeta umani e non possano avere lo stesso diritto di abitare nel luogo in cui sono.