L’Organizzazione Mondiale della Sanità Animale ha annunciato di avere individuato un terzo focolaio italiano di SARS-CoV-2 all’interno di un allevamento di visoni situato nel comune di Galeata, nella provincia di Forlì-Cesena ormai chiuso a seguito del divieto di allevamento entrato in vigore il primo di gennaio 2022.
La notizia ha puntato nuovamente i riflettori sulla necessità di emanare un apposito decreto – firmato dal Ministro delle Politiche Agricole, di concerto con i Ministri della Salute e della Transizione Ecologica – che stabilisca i criteri e le modalità con cui erogare gli indennizzi agli allevamenti di visoni, volpi, cani procione, cincillà e di altri animali considerati impropriamente (e ormai illegalmente, visto il devo entro in vigore ormai quasi un anno fa) “da pelliccia”, e che disciplini le cessioni e la detenzione di questi animali. Soltanto in questo modo, come sottolineano le associazioni Essere Animali, Humane Society international/Europe e LAV, sarà possibile procedere con lo svuotamento degli ultimi 5 allevamenti in cui oggi sono ammassati oltre 5.000 visoni, compresi i 1.523 presenti a Galeata, che ora rischiano l’abbattimento.
Da qui la decisione delle associazioni, di lanciare un appello al ministro dell’Agricoltura e della Sicurezza Alimentare, Francesco Lollobrigida, affinché firmi il decreto, richiamano all’attenzione la necessità di vietare allevamento e commercio di pellicce in tutte l’Unione Europea tramite l’Iniziativa dei Cittadini Europei #FurFreeEurope: «Da gennaio attendiamo il decreto interministeriale – sottolineano le associazioni – È evidente come l’inazione dei ministeri competenti stia continuando a rappresentare un rischio per la salute pubblica e continui ad ignorare i principi più basilari di benessere animale. Chiediamo al ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida di intervenire con urgenza dando concreta attuazione a quanto sancito con la legge di bilancio 2022 e consentire quindi il trasferimento di almeno alcuni dei visoni ancora rinchiusi nelle gabbie degli allevamenti intensivi».
In Italia si sono già verificati 2 focolai di coronavirus in allevamenti di visoni per la produzione di pellicce, ad agosto 2020 a Capralba (Cremona) e a gennaio 2021 a Villa del Conte (Padova). Nel mese di novembre, nell’ambito dello screening diagnostico obbligatorio finalizzato a intercettare l’eventuale introduzione del coronavirus SARS-CoV-2 in allevamenti di visoni (screening disposto dall’ex-Ministro della Salute Roberto Speranza a dicembre 2020) e che consiste nella effettuazione di 60 tamponi ogni 15 giorni in ogni allevamento a prescindere dalla numerosità dei visoni presenti, sono stati individuati 4 visoni positivi alla infezione da coronavirus in un terzo allevamento, a Galeata (FC). Dalla pubblicazione risalente al 24 novembre, sul database online del dall’Organizzazione Mondiale della Sanità Animale, risulta che sono stati sottoposti a tampone (real-time PCR) per la manifestazione di segni clinici compatibili con l’infezione. A oggi non è chiaro se gli animali, non più in vita, siano stati poi abbattuti o se siano morti a causa della infezione.
Oltre 5.000 visoni restano nel limbo per l'assenza del decreto
L’allevamento in questione è quello sito nel territorio del comune di Galeata (FC) e, insieme agli altri allevamenti di Ravenna frazione San Marco (640 visoni), Capergnanica (Cremona, 1.180 visoni), Calvagese della Rivera (Brescia, 1.800 visoni), e Castel di Sangro (L’Aquila, 18 visoni), è una delle ultime strutture in Italia dove ancora migliaia di visoni “riproduttori” sono rinchiusi nelle gabbie.
Questi animali sarebbero stati sfruttati per l’avvio di un nuovo ciclo produttivo nel 2021, ma, in seguito al temporaneo divieto alla riproduzione disposto dall’allora ministro della Salute come misura anti-Covid essendo questi allevamenti riconosciuti come potenziali serbatoi del coronavirus, e al successivo divieto permanente all’allevamento di animali per la produzione di pellicce, sono rimasti in una sorta di limbo. Non possono quindi essere uccisi per scopi commerciali né per esigenze di salute pubblica, ma non possono essere liberati in natura in quanto predatori non autoctoni e potenziali reservoir del virus pandemico.
Secondo le disposizioni della Legge 234/2021, quella che ha vietato gli allevamenti di animali destinati alla produzione di pellicce, il ministro dell’Agricoltura avrebbe dovuto disciplinare con un apposito decreto l’eventuale cessione di questi animali a strutture gestite direttamente o in collaborazione con associazioni animaliste. Se il provvedimento fosse stato adottato nei tempi previsti, e cioè entro il 31 gennaio 2022, almeno parte dei visoni all’epoca presenti negli allevamenti in dismissione avrebbero potuto essere trasferiti in altre strutture, diminuendo così la densità di popolazione e, di conseguenza, l’assembramento di animali particolarmente suscettibili all'infezione da coronavirus SARS-CoV-2.
Con conseguenze non soltanto sul benessere animale, evidentemente non rispettato, ma anche per la salute pubblica, visto che il rischio zoonosi in questo genere di allevamenti è molto alto e che la catena di contagio uomo-visone-uomo (con un salto di specie di ritorno e con un virus mutato) è stata ampiamente documentata sin dai primi casi segnalati in Olanda a maggio 2020. Si stima che il divieto di allevamenti solo in Italia abbia salvato la vita ad almeno 60.000 visoni.
«Per evitare il rischio di formazione di nuovi focolai di coronavirus in allevamenti di visoni europei, e per risparmiare milioni di animali sfruttati solo per il valore della loro pelliccia – concludono le associazioni Essere Animali, Humane Society international/Europe e Lav – invitiamo chi ancora non lo avesse fatto a sostenere, con una firma, la petizione di Iniziativa dei Cittadini Europei “Fur Free Europe” con la quale stiamo chiedendo alla Commissione Europea di vietare in tutta l’UE gli allevamenti di animali destinati alla produzione di pellicce e il commercio, compreso l’import, di prodotti di pellicceria. Entro maggio 2023 dobbiamo raggiungere 1 milione di firme in tutta l’UE, ad oggi già oltre 600.000 europei hanno dato il proprio consenso».