Negli anni in cui frequentavo l’Università di veterinaria, abitavo in una casa rurale immersa nei campi. Quando avevo parlato col proprietario per chiederla in affitto, un omone anziano e rude che aveva lavorato la terra per anni, non riusciva a credere che sarei andata a vivere lì da sola e con un bimbo piccolo. La seconda volta che ci vedemmo per tornare a dare un’occhiata alla casa e trattare un po’ sul prezzo, era ancora poco convinto della mia scelta. Credo che per lui una giovane studentessa con un figlio piccolo e molti gatti non incarnasse affatto il prototipo della persona che potesse vivere in campagna. Una sistemazione con le sue scomodità: la strada sterrata e dissestata per arrivare alla casa, il freddo degli inverni senza tutti i comfort.
Riuscii a convincerlo solo quando guardando la collina e il tramonto, gli dissi che lo spettacolo era impagabile. Fece un sorriso amaro, duro come chi per una vita lavora la terra e si forgia nel fisico. Mi raccontava, ogni volta che ci incontravamo, che l’unica donna che aveva abitato in quella casa che lui aveva messo a posto una pietra alla volta, dopo che i suoi nonni anche loro contadini gliel’avevano lasciata, era stata sua moglie. Una donnina che trasudava forza d’animo e di corpo dal suo racconto. Io lo prendevo un pò in giro, dicendogli che non sarei mai stata una brava massaia e che non avrei certo lavorato i campi ma che senza dubbio avrei messo dei pomodori in estate e cascasse il mondo, gliene avrei regalati un po’. Lui ormai viveva in paese ed era troppo in là con gli anni – diceva – per continuare quel tipo di vita, ed era giusto che stesse vicino all’ospedale e ai suoi figli.
Certi anziani hanno la spinta a non volersi mai sentire un peso per gli altri, così da progettare la loro vecchiaia sempre in relazione ad un ospedale: lo faceva anche mia nonna. Era un suo pensiero fisso mostrarmi una valigia di vestiti “buoni” con cui mi rammentava spesso che se fosse accaduto qualcosa, prima di andare in ospedale, avrebbe dovuto indossarli. Chissà perché quel passaggio obbligato: il proprietario di casa a occhio e croce aveva l'età di mia nonna, erano sicuramente persone che ricordavano la guerra, la fame, la terra. Il proprietario, la volta in cui lo convinsi ad affittarmi la casa e prima di ripartire sul suo vecchio Fiorino, mi disse che se volevo reggere quella situazione mi sarei almeno dovuta fare un cane da guardia. Fu abbastanza profetico e un cane arrivò, sebbene gli avessi risposto sorridendo che io, come mia nonna, avevo una passione per i gatti e che pur volendo, nella mia vita non c’era spazio per un cane: ero già abbastanza impegnata con gli studi e mio figlio.
La campagna di notte: cani, volpi, ricci e un mondo di suoni e odori
Dopo poche settimane dal mio trasferimento, decisi che la zona era abbastanza tranquilla per dare la libertà di perlustrare l’esterno ai miei gatti. Per essere certa che ci fosse sempre disponibilità di cibo anche a quelli che preferivano girare col buio, avevo lasciato su un mobile abbastanza in alto un contenitore per loro che non fosse accessibile ad altri animali. Più di una notte mi ero svegliata sentendo rumori provenire da fuori: erano i gatti che masticavano ma erano davvero particolarmente rumorosi per cui andavo sempre a sincerarmi che non vi fosse nulla di strano. Affacciata con la torcia nel buio pesto della notte, mi rendevo conto che spesso invece si trattava di ricci o addirittura volpi: l’unica soluzione era lasciare una fonte di cibo ancora più in alto possibile solo ed esclusivamente per i gatti.
Le notti passavano serene per cui la soluzione sembrava ottimale. Ma il presagio del proprietario della casa sembrò avverarsi prima che io me lo aspettassi. Una notte infatti, fui svegliata da un rumore terribile fuori: corsi subito a vedere perché temevo che qualcuno dei miei gatti si fosse arrampicato in fretta sul mobile magari per scappare da qualcosa. Quello che vidi fu solo tutto il cibo a terra. Rientrata in casa, capii nel vederli dormire che nessuno dei gatti mancava all’appello. Che razza di animale poteva essere così agile da saltare come un gatto gettando a terra rovinosamente tutto? Non ne avevo idea ma per non rischiare, pulii il grosso e tolsi il cibo: ci avrei pensato l’indomani. Tornata a letto però, non prendevo sonno più per la curiosità che per il timore: la campagna di notte era affascinante e iniziavo a distinguere persino la civetta dal barbagianni. Stavo diventando una vera appassionata, pensavo fra me e me, quando sentii che qualcuno masticava qualcosa che evidentemente era rimasto a terra. Mi armai di pazienza e con passo svelto, mi affacciai alla finestra facendo più piano che potevo: accesi la torcia e la direzionai verso il masticatore misterioso il quale mi fissò con gli occhi sgranati e corse via velocissimo. Realizzai dopo un istante che si trattava di un cagnone, sicuramente bianco: non avevo potuto fissare nella mente altri particolari ma sentivo nelle orecchie il rumore di qualcosa di metallico che tintinnava mentre si infilava nei cespugli allontanandosi da me. Sembrava impaurito ma, d’altronde, lo sarebbe stato chiunque in piena notte a vedersi puntare un faro in pieno volto e colto sul fatto. Chissà se era stato lui a rovesciare il cibo e dico lui, perché nel mio immaginario quel cane era sicuramente un maschio.
Un incontro inaspettato in pieno giorno
Quella domenica era caldo, c’era il sole e non sembrava affatto dicembre. Avevo invitato degli amici e mi sembrava un'ottima idea pranzare fuori. Ero intenta a cucinare quando dalla finestra della mia cucina scorsi, con la coda dell’occhio, un movimento. All’inizio non ci prestai attenzione, ero sicura fosse qualcuno dei miei gatti. Quando lo scorsi nuovamente, mi sembrava strano che fosse un micio però: faceva troppa ombra, era qualcosa di più grande o forse il tempo stava volgendo alle nuvole. Decisi di affacciarmi per capire e mi trovai davanti un grosso cane bianco: aveva gli stessi occhi sgranati del cane della notte di un mese fa, ma era giorno e potevo guardarlo bene. Aveva grosse pezzature arancioni come quei cagnoni da caccia che tante volte avevo visto in giro e non ebbi più dubbi che fosse lo stesso cane quando scorsi che aveva un collare di ferro che penzolava da un lato e faceva lo stesso rumore che udii quella notte. Era certamente impaurito ma neanche eccessivamente: avrebbe voluto avvicinarsi ma poi indietreggiava.
Presi del pane che avevo a portata di mano ma non si fidava: glielo lanciai a terra, lo mangiò in un secondo così che due cose mi furono chiare: aveva una fame incredibile e osservandolo meglio, quello che vedevo era una catena o almeno un pezzo di quella che rimaneva. Non ero pratica di cani: cosa dovevo fare? Volevo togliergli quel peso dal collo ma anche che si rifocillasse un po’. Ero combattuta: e se era di qualcuno? Dovevo indagare. Nel frattempo un po del macinato della mia gatta anziana non gli avrebbe fatto male ma quando mi prodigai fuori per offrirgli una ciotola d'acqua, scappò a gambe levate. Ero affranta: avevo fatto qualcosa ma il pensiero di quel cane popolò la mia testa per settimane. Ogni tanto la domenica, tornavo a scorgerlo lontano ma non si era più avvicinato alla casa. Nel frattempo avevo chiesto in giro sulla strada statale che portava alla piccola frazione dove vivevo ma nessuno aveva smarrito un cane come quello che si aggirava a casa mia.
La fortuna di essere a casa quando è tornato
Erano passati mesi e ogni tanto mi sembrava di scorgere il cagnone bianco a macchie arancioni: nella campagne vicino casa era normale infatti vedere dei gruppetti di cani che si muovevano per le colline. Di solito era un codazzo di maschi dietro qualche femmina e ogni tanto mi sembrava di intravedere lui: piccolo, lontano, insieme agli altri cani. Nel mio immaginario tutto sommato avevo idealizzato questo cane passato a una migliore vita in libertà da quella schiavitù in catena e mai mi sarei immaginata di vedermelo una mattina arrivare ridotto come un colabrodo. Quel giorno avevo fretta di portare mio figlio in asilo e non arrivare a lezione col mio consueto ritardo ed ecco che all’improvviso era spuntato zoppicando vistosamente e pieno di ferite. Era diverso il suo atteggiamento rispetto alle volte precedenti: la paura non lo faceva allontanare perché le sue forze erano ridotte a zero. Sicuramente qualche lotta fra cani maschi di cui doveva aver avuto la peggio: era pieno di buchi e graffi ed esausto si era messo a terra, vicino la porta di casa.
Non ci pensai un attimo e ogni piano era già saltato: caricato sul sedile di dietro della macchina, non aveva opposto resistenza. Correvo da mia madre perché avrebbe potuto stare col piccolo mentre io ero dal veterinario: ne avremmo avuto per un bel po’. Il mio medico di riferimento mi disse che era un setter giovane, senza microchip e che avrebbe dovuto stare al caldo per un po’.
Quel po’, divennero 16 lunghi anni insieme: Ettore ha vissuto con me molto tempo, amico di mille avventure e sempre un pò in fissa col cibo dei gatti. Ha visto crescere mio figlio, nascere la mia seconda bimba, ha cambiato con noi case, città, paesi. Un cane eccezionale, incapace di andare a caccia ma capacissimo di essere parte di una famiglia di persone, cani e gatti fra mille peripezie, luoghi e situazioni. E ora come allora, nessun luogo sarà mai lontano per la nostra amicizia, amico mio.