Dare da mangiare ai gatti randagi non è reato. A livello nazionale non esiste alcuna norma che vieti di alimentare i gatti randagi, o meglio, i gatti “che vivono in libertà”, come li definisce la legge. Non solo: il nostro ordinamento, diversamente da quanto statuisce con riguardo ai cani randagi, consente espressamente ai gatti di vivere liberi e garantisce loro tutta una serie di specifiche tutele.
La legge 281 del 1991 (“Legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo”), ad esempio, prevede che i gatti liberi, una volta sterilizzati dall'autorità sanitaria competente per territorio, debbano essere riammessi nel loro gruppo (la cosiddetta colonia). Ancora, “i gatti in libertà possono essere soppressi soltanto se gravemente malati o incurabili”. “Gli enti e le associazioni protezioniste possono, d'intesa con le unità sanitarie locali, avere in gestione le colonie di gatti che vivono in libertà, assicurandone la cura della salute e le condizioni di sopravvivenza”.
I privati cittadini, quindi, possono dar da mangiare ai gatti liberi, rispettando gli accorgimenti di cui ai paragrafi che seguono.
Il Comune (o altri Enti) può vietare di alimentare i gatti randagi?
Si sono susseguite nel tempo diverse ordinanze di sindaci o regolamenti comunali aventi come scopo quello di vietare di dar da mangiare ai gatti liberi (o anche ai cani randagi). Ci si chiede se questi provvedimenti siano legittimi e se davvero si possa vietare ad un cittadino o ad un passante di offrire, anche solo sporadicamente, del cibo ad un animale randagio. Così come ci si chiede se sia legittimo vietare ad un cittadino di fornire abitualmente del cibo a singoli gatti o a colonie che vivono in una certa zona, lasciando loro cibo e acqua all’interno di contenitori.
La giurisprudenza dei tribunali amministrativi in più occasioni si è pronunciata su tali questioni.
Dalle ordinanze e sentenze dei diversi TAR è emerso con chiarezza il concetto secondo cui sono illegittimi e dunque, se impugnati, possono andare incontro ad annullamento, quei provvedimenti amministrativi locali che vietano di per sé la condotta di alimentare i gatti liberi e i randagi in generale.
Di recente, il Tar Campania, con l’Ordinanza n. 958 del 2018 ha ben spiegato come l’interesse pubblico rappresentato dalla “esigenza di evitare il verificarsi di situazioni nocive o pericolose dal punto di vista igienico sanitario” (“le quali possono essere messe in pericolo dall’abbandono di rifiuti su suolo pubblico, avanzi di cibo o contenitori”), non può e non deve essere perseguito con il divieto di alimentazione dei randagi. Esistono già, infatti, delle specifiche norme che rendono illecite le condotte di deturpamento o imbrattamento del suolo pubblico e quelle che causano problematiche di natura igienico-sanitaria.
Il TAR della Puglia e della Calabria hanno inoltre chiarito come la normativa nazionale abbia previsto una specifica e preferibile misura per limitare queste problematiche, ovvero quella della limitazione delle nascite mediante sterilizzazione.
Il divieto di dar da mangiare ai gatti liberi (o ai cani randagi) si tramuta, peraltro, in un vietato maltrattamento nei loro confronti.
Da queste stesse pronunce, però, è risultato altrettanto chiaro che: se è vero che non si può vietare di alimentare i gatti liberi, è altrettanto vero che costituiscono condotte illecite sia quella di gettare cibo sul suolo pubblico o nella proprietà altrui sia quella di lasciare sui marciapiedi o sulle strade i contenitori sporchi di avanzi. In altre parole, è assolutamente lecito dar da mangiare ai gatti liberi, ma chi intende offrire loro del cibo lo deve fare mediante contenitori puliti, che vanno subito rimossi dopo il pasto.
Chi dà da mangiare ai randagi ne diventa responsabile?
Occorre anche smontare una convinzione errata e falsa che si legge e si sente spesso: la sola condotta di nutrire un gatto libero non significa divenirne responsabile in ordine ai danni che questo dovesse causare.
La condizione che deve sussistere per una tale assunzione di responsabilità è quella della detenzione stabile dell’animale. Sul punto si è espressa con grande chiarezza la Cassazione Penale con la sentenza n. 19161/2014 che ha deciso un caso nel quale si imputava ad una donna il fatto di non aver impedito gli strepiti di alcuni cani che era solita sfamare nei pressi della propria abitazione.
La Suprema Corte ha affermato che: “tale dovere può discendere solo da un rapporto di diretta e tendenzialmente stabile relazione con le bestie in questione, corrispondente, se non ad un rapporto proprietario, quantomeno ad una relazione possessoria o di detenzione, ma non certamente ad un vincolo di tipo assolutamente precario quale può essere quello connesso alla sola somministrazione del cibo a scopo lato sensu assistenziale”.