In questa stagione più che in altre può capitare di imbattersi in un animale selvatico in difficoltà per le più svariate ragioni: ferite e investimenti ma anche animali caduti dal nido e altri, giovani, ai quali sarebbe potuta, talvolta, andare senza il nostro intervento. Come spesso avviene, per esempio, con i piccoli di capriolo che sono lasciati soli dalle madri per brevi periodi, in luoghi appartati, ai quali fanno sempre ritorno.
Aiutare la fauna selvatica non è affatto facile, per mancanza di informazioni, eccesso di interventismo e per la cronica carenza di strutture di ricovero e pronto intervento per il loro soccorso.
Gli animali selvatici costituiscono “patrimonio indisponibile” dello Stato che ha o quantomeno avrebbe il dovere di tutelarli e difenderli secondo i disposti della legge 157/92, nell’interesse della comunità nazionale e internazionale. Un’affermazione così imperativa da far pensare che, almeno in questo settore, gli animali siano effettivamente difesi e al sicuro ma non è proprio così. Nel nostro paese, scendendo dal piano dei principi a quello della realtà, la difesa degli animali selvatici è costantemente in bilico fra concessioni garantite ai cacciatori, difficoltà di convivenza e gravi carenze nella capillarità delle strutture di soccorso.
La gestione faunistica e la caccia sono una delle tante materie devolute dallo Stato alle Regioni che restando all’interno di un quadro generale nazionale, possono legiferare e organizzarsi come meglio ritengono. Spesso però la devoluzione di materie così importanti, come la difesa del nostro patrimonio faunistico oppure la sanità, sia umana che veterinaria, non ha prodotto i risultati ipotizzati, creando un reticolo composto da poche eccellenze e moltissime carenze, sia operative che strutturali. Con una qualità dei servizi erogati a macchia di leopardo su tutto il territorio nazionale.
In Italia esistono due tipologie di strutture per il recupero degli animali selvatici: i CRAS (Centri Recupero Animali Selvatici) e i CRASE che ai selvatici aggiungono anche la possibilità di occuparsi anche di animali esotici. Le strutture di entrambe le tipologie sono regolamentate dalle leggi regionali, che prevedono le dotazioni minime, obblighi burocratici, stabilendo anche il destino dei selvatici autoctoni quando non siano in condizioni di poter essere liberati. Questi sono, in estrema sintesi, gli obblighi dei CRAS, volutamente poco definiti: strutture pubbliche o convenzionate che hanno l’obbligo di ritirare gli esemplari faunistici in difficoltà e di procedere a cure e riabilitazione, ove possibile.
Un’attività normata senza andare troppo nei dettagli per evitare il rischio di svelare quanto la coperta, in questo settore, sia estremamente corta e spesso possa corrispondere più a uno sfondo teatrale, apparente ma finto, che non alla realtà. Alle strutture autorizzate, che quasi sempre ricevono gli animali selvatici ma non si occupano del loro soccorso nei luoghi in cui sono rinvenuti, si aggiungono una serie di strutture che non sono CRAS autorizzati ma realtà che tamponano, nel bene o nel male a seconda di chi le gestisce, le carenze di un inesistente servizio di pronto soccorso agli animali. Realtà che pur non essendo perfettamente rispondenti ai criteri di legge risolvono i problemi alle strutture che si adoperano per soccorrere gli animali, come i sempre presenti Vigili del Fuoco che operano mirabolanti salvataggi ma non hanno strutture di ricovero e che, di conseguenza, devono poter consegnare l’animale soccorso a qualcuno che se ne occupi per liberare l’equipaggio.
Dove le necessità si fanno pressanti i controlli diventano però sempre meno frequenti, lasciando con una certa frequenza che il destino degli animali soccorsi abbia contorni indefiniti che possono pregiudicare poi l’atto più importante: la liberazione in natura di un animale selvatico perfettamente guarito. Un selvatico non alterato nei comportamenti dall’imprinting e, quindi, in grado di riprendere la vita libera senza avere maggiori difficoltà dei suoi conspecifici che non hanno mai dovuto ricorrere alle cure umane. Queste sono condizioni basilari per poter liberare un animale recuperato e più è alto il suo grado di specializzazione e più è importante che il rilascio avvenga soltanto per animali in ottime condizioni, fisiche e comportamentali.
Per spiegare meglio facciamo due esempi. Una volpe è un’animale estremamente adattabile e con una dieta molto variata, un fatto che le consente di recuperare cibo senza grandi difficoltà e quindi è liberabile anche con piccoli handicap a patto che però non sia stata imprintata, ovvero resa confidente e dipendente dall’uomo. Un condizionamento involontario che può accadere con grande facilità con una volpe, specie intelligente e opportunista, se il recupero è avvenuto in spazi non idonei, come ad esempio un ambulatorio veterinario. Al contrario un falco pellegrino, una macchina da predazione perfetta con le sue picchiate a centinaia di chilometri all’ora, non avrà alcuna chance di sopravvivere se non sarà in perfette condizioni fisiche. Decisioni che comportano scelte importanti, professionalità e conoscenze che vadano oltre alla buona volontà: rilasciare un animale non idoneo alla vita selvatica significa condannarlo a fare una morte di stenti, quando non sarà in grado di procurarsi il cibo.
Per questo chi si occupa di animali con qualche competenza e vede sul web immagini di bambini che, in un centro di recupero, allattano piccoli caprioli oppure persone che cercano di recuperare volpi ferite curandole e tenendole in strutture veterinarie, prova un senso di sconforto. La carenza di strutture e l’assenza di una specializzazione fanno diventare riabilitatori esperti anche figure improbabili, che non hanno competenze specifiche in questo settore così delicato. Causando inevitabili sofferenze agli animali una volta reimmessi nel loro ambiente.
Questa è la ragione per cui sarebbe importante avere una regolamentazione nazionale sul recupero degli animali selvatici, individuando non soltanto regole precise ma anche identificando i CRAS suddividendoli per specialità, competenza, tipologia delle strutture. Per evitare che chi fino a ieri si è occupato del recupero di piccoli uccelli si trovi a gestire un lupo, senza avere le conoscenze e gli spazi necessari per ottenere la completa riabilitazione. Identificando tutti gli animali liberati in modo permanente, inserendoli in una banca dati nazionale, in modo da poter avere indicazioni utili e evidenze scientifiche in caso di un nuovo recupero di un animale vivo o del rinvenimento di un esemplare deceduto. Evitando sempre che il consenso mediatico ottenuto da certi recuperi diventi la leva per curare e liberare a tutti i costi un animale che in natura avrà, ragionevolmente, vita breve.
Senza dimenticare la necessità che questi centri diventino capillari, distribuiti sul territorio, occupandosi anche del pronto soccorso degli animali feriti o in difficoltà, direttamente o in sinergia con le strutture operative sul territorio ma non dotate di centri di recupero. Contemporaneamente occorre fare educazione nei confronti dei cittadini che spesso recuperano senza criterio animali che non sono affatto in difficoltà, come i piccoli uccelli ai primi involi, che avrebbero complessivamente maggiori possibilità di sopravvivenza se non toccati e lasciati dove sono, facendosi consigliare, prima di agire, da istituzioni e associazioni. Nessuna cura umana può avere speranza di ottenere un successo uguale a quella operata dai genitori in natura e, per questo, interferire anche quando animati da buone intenzioni può significare condannare a morte un animale.