Fin quando ci sarà separazione, polemica non costruttiva e non collaborazione tra persone che hanno a cuore il benessere dei cani nulla cambierà. Il randagismo viene spesso definito un "problema" e sì, lo è. Lo è per come lo percepiamo oggi e per come i cani liberi – tutti ingabbiati nelle nostre menti sotto il nome di "randagi" – vengono considerati senza fare, appunto, delle distinzioni necessarie.
C'è un problema, sicuramente, che appartiene principalmente al centro-sud Italia ma che ha effetti anche sul resto del territorio nazionale. Dal Lazio a scendere, tantissimi individui vivono nelle strade per ragioni e motivi diversi dei quali poco si sa e poco si indaga prima di decidere il destino di ogni singolo soggetto. Nella maggior parte dei casi, purtroppo, i cani vengono rinchiusi ancora prima che nelle strutture d'accoglienza in gabbie mentali in cui tutti vengono etichettati sotto una sorta di alone perenne di disperazione. Cani recuperati senza analisi del contesto di vita e della loro storia, in quanto singoli o appartenenti a gruppi familiari da cui allontanarli è la peggiore delle soluzioni. Scelte estreme, vissute come "normali", che troppe volte si ribaltano poi comunque proprio sulle spalle di chi continua a spendere gran parte del suo tempo a "salvarli" e fino a chi inconsapevolmente poi li adotta e non riesce a dargli una vita in linea con le loro motivazioni e la loro storia.
Il randagismo riguarda un'intera Nazione, non è questione di Sud, Centro o Nord: è qualcosa che coinvolge tutti e riguarda in generale il rapporto che abbiamo con esseri viventi che hanno il diritto di vivere insieme a noi in un territorio che appartiene a ciascuno, nell'ambito di regole precise e dell'applicazione reale di politiche concrete rivolte alla tutela degli animali e alla serenità delle persone.
Con la detenzione a vita in canile abbiamo abdicato alla ratio stessa per cui, ormai più di trent'anni fa, il legislatore aveva trasformato le strutture pubbliche da luogo di morte a posto di passaggio finalizzato alle adozioni, trasformando nella pratica una legge (la 281/1991) che era all'avanguardia in lettera morta.
De resto, si può arrivare alla notte dei tempi per vedere come la nostra specie abbia da sempre dato ben poco peso a quella che dovrebbe essere la nostra funzione in un ecosistema equilibrato: come esseri umani non abbiamo mai imparato davvero a rispettare gli altri esseri viventi che hanno il diritto di vivere su questo Pianeta tanto quanto lo facciamo noi.
Una riflessione sui cani liberi però merita di essere affrontata con la mente sgombra dai giudizi personali, ovvero priva di preconcetti dovuti allo scontro costante e perpetuo che si crea ogni qualvolta una persona decida che la sua posizione è migliore di quella dell'altro che ha, a suo modo, affrontato la questione e tratto altre conclusioni.
Ecco, proviamo allora a non segnare subito una riga tra chi è da una parte o dall'altra ma ricordarci che alla base di un sano confronto, se si vuole arrivare a un'altrettanto sana e soprattutto pratica e non teorica soluzione, è necessaria la collaborazione.
Il punto di partenza, però, non può che essere umano per "capirci tra di noi" e perché la domanda da farsi, sempre, quando si parla di cani in libertà è, prima di tutte le altre, una: "Perché io ho a cuore il destino di quell'essere vivente?". E da qui si dipanano già risposte diverse che sicuramente dipendono dalle condizioni in cui quel cane si trova e al vissuto di ognuno di noi.
Escludiamo subito, per evitare fraintendimenti, una tipologia di animali che sicuramente ha bisogno del nostro aiuto e che grazie ai volontari più che alle istituzioni riesce ad avere una chance per vivere una vita dignitosa: cani maltrattati, cani abbandonati, cani malati. Questi individui va da sé che hanno bisogno di supporto, che la loro vita può dipendere da noi e che le loro condizioni di malessere sono state determinate in linea di massima dalla nostra specie, da una debilitazione fisica o ancora dal tipo di situazioni in cui sono ritrovati.
Come ci comportiamo invece nei confronti dell'esistenza di chi è "altro da noi" in tutti i sensi e che non richiede il nostro aiuto ma è appagato dalla sua vita senza un riferimento umano specifico, senza una casa a cui tornare necessariamente?
In maniera non provocatoria vi invito a "reagire" a caldo di fronte a questo esempio estremo: un cane anziano, che sta per terminare la sua vita per cause naturali e che ha sempre trascorso l'esistenza nelle strade della sua città… va aiutato portandolo via dal contesto in cui ha sempre vissuto?
Alcuni penseranno che sì, va assolutamente recuperato, curato, tenuto al sicuro e, in attesa che muoia, seguito fino all'ultimo istante. Altri, invece, avranno in mente un'idea della vita che pone il concetto di "libertà" non solo in capo agli esseri umani ma a chiunque abbia una mente. E dal punto di vista scientifico, non dimentichiamolo, è ormai accertato che i cani hanno emozioni e cognizioni.
Quel soggetto – ripeto, non finito in strada perché abbandonato da qualcuno – comunque la si veda non si può oggettivamente non ammettere che ha percorso la sua esistenza sulla Terra e che, intervento umano o meno, è "semplicemente" arrivato il suo momento. Questa considerazione del tutto teorica è inoppugnabile, sebbene cruda, e ci si arriva solo razionalizzando le azioni che vengono compiute sulla scia delle nostre emozioni.
La concreta domanda a cui ognuno potrebbe provare a dare una risposta sincera, però, non è per un caso così estremo. Ma sul perché invece accade così tante volte che sentiamo il bisogno di "salvare" un altro individuo anche se non è in uno stato di reale difficoltà. E quanto sia difficile chiedersi ogni volta, appunto, quando e se è giusto farlo davvero.
Torniamo ai canili che sono diventati dal 1991 il luogo in cui rinchiudere i randagi. Prima li ammazzavamo, poi la nostra coscienza ci ha detto che non era giusto e quella legge nata per la tutela degli animali d'affezione si è trasformata nel salvacondotto per applicare la massima "lontano dagli occhi, lontano dal cuore". Tanti stalli casalinghi oggi rappresentano la stessa soluzione.
In oltre trent'anni milioni di individui sono stati segregati dietro le sbarre o confinati a vita in luoghi considerati "sicuri". Tanti hanno trovato famiglia ed è quello a cui esattamente dovrebbe servire un intervento umano ben fatto in funzione delle caratteristiche dei singoli soggetti sia lato cane che lato umano. Molti cani però sono invece rimasti e rimangono in un limbo o in un inferno vero e proprio, fino a chiudere i loro occhi per sempre dietro box e recinti, lontani da quelle strade, periferie, campagne, boschi a cui appartenevano. Ma per tanti umani, ancora oggi, quei cani sono stati comunque "salvati". Da cosa? Dalla vita, semplicemente.
“A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure", ha scritto Italo Svevo ne "La coscienza di Zeno" e la cosa che forse homo sapiens proprio non riesce ad accettare è che quello che tutti compiamo è un viaggio le cui certezze sono solo tre: nascere, vivere appunto e poi morire.
Come ognuna di queste tappe venga approcciata, però, dipende solo da quella di mezzo e riguarda tanto le scelte che faremo e, certo, anche il – come vogliamo chiamarlo? – destino, fato o caso. Pensate però se a questi elementi, già così complicati, anche noi umani ne avessimo un altro che determina come in una sorta di "Sliding doors" la prosecuzione del cammino verso l'ultima tappa: arriva qualcuno che decide cosa deve accaderci.
E tra i tantissimi che nei confronti dei cani lo fanno in buona fede per quanto riguarda i cani, c'è un panorama generale da guardare in cui aprendo bene gli occhi si vede che le istituzioni sono carenti, non c'è una politica concreta per favorire le adozioni consapevoli e esiste un accertato business su cui si guadagna anche negli spostamenti, nella detenzione e nelle gestioni di alcuni luoghi in cui quei soggetti vengono rinchiusi. La buona fede, dunque, non basta e ci vuole molta, tanta consapevolezza per mettersi nei panni di un deus ex machina che incide necessariamente sull'esistenza di altri individui (cani e future famiglie eventuali).
Per i cani liberi, in Italia, si va avanti in maniera randomica e non organizzata a tutti i livelli, dai canili pubblici ai rifugi privati passando per i singoli cittadini. Finalmente possiamo raccontare, e su Kodami lo facciamo sempre, esempi virtuosi da Sud a Nord che non solo esistono ma che, per fortuna, stanno aumentando sempre di più. Ma come sono nate queste che ancora sono però poche "perle"? Grazie alla maggiore attenzione e conoscenza da parte di tutti gli attori umani coinvolti, ovvero dai volontari agli operatori, passando per educatori e istruttori cinofili e veterinari esperti in comportamento che collaborano per far sì che il processo di valutazione inizi ancora prima che un soggetto sia accalappiato, recuperato… "salvato" e basta, appunto.
E non c'è in queste parole alcuna accusa nei confronti di chi opera su territori abbandonati dallo Stato e dagli Enti locali, sia chiaro. A loro va una "menzione d'onore" della quale al posto loro, leggendo queste parole, io stessa non saprei cosa farmene in realtà. Ma è proprio ai volontari, ovvero a chi in mezzo alle vite dei cani liberi ci sta dalla mattina alla sera, che ci si deve rivolgere quando si parla di libertà, perché in assenza di chi dovrebbe applicare le leggi volute proprio per il benessere dei cani e la loro tutela ancora tutta la responsabilità continua a cadere sulle spalle dei singoli. E bisogna cambiare la prospettiva se realmente vogliamo che cambi qualcosa per quei cani con cui entriamo in contatto ogni giorno. Mettendo al centro della riflessione, infine, che l'obiettivo principale di tutti dovrebbe essere non più trovare soluzioni da soli ma chiedere con forza ciò che è diritto di tutti i cittadini: pretendere una politica seria che investa soldi in maniera funzionale, a garanzia del benessere di tutti gli animali non umani.