Dallo scorso Maggio è in atto un piano di abbattimento dei daini (Dama dama) presso il Parco regionale delle Madonie in Sicilia. Il piano di abbattimento era stato programmato dall'inizio dell'anno, ma già a partire dall’inizio dell'estate il piano di contenimento della specie aveva provocato dissensi all’interno del panorama animalista siciliano. La motivazione è presto detta: l’impiego di cacciatori come strumento utile nel “debellare” la presenza della specie in una delle aree più vocate della biodiversità siciliana.
Con decine di daini abbattuti a colpi di fucile, ieri le forze di opposizione a questa decisione hanno cominciate seriamente a farsi sentire, con l’intervento del dirigente regionale del partito animalista italiano, Patrick Battipaglia, che ha chiamato a raccolta i movimenti animalisti per protestare contro quella che secondo lui è un provvedimento pericoloso e che cozza contro la tutela della biodiversità dell’area.
«Praticamente si è autorizzata la caccia al daino all’interno di un’area protetta, con conseguenze nefaste per l’intero parco delle Madonie», ha affermato Battipaglia.
I dubbi sul piano di abbattimento dei daini non hanno scatenato solo l’ira degli ambientalisti siciliani. Anche sulle pagine social e in particolare sulla pagina Facebook di Piano Battaglia – una delle località simbolo della catena montuosa siciliana – gli utenti hanno esternato le loro preoccupazioni sotto ai post in cui si dava notizia dell’evento.
L’ultimo post ha collezionato nelle ultime ore oltre 200 commenti e fra utenti più o meno indignati, ci sono tanti cittadini che hanno protestato contro la decisione presa dall’assessorato e approvata dallo stesso ente che gestisce il parco, coordinato da Angelo Merlino.
La questione dell’abbattimento dei daini risulta comunque essere molto complessa e per comprendere l’origine di questo scontro fra movimenti ambientalisti e assessorato (o anche per prendere posizione fra una delle due posizioni), bisogna indagare a fondo le motivazioni che hanno spinto la regione a chiedere l’aiuto dei cacciatori e i problemi connessi alla loro presenza nel parco.
Le ragioni dell’abbattimento dei daini
Le ragioni che hanno spinto l’assessore regionale del territorio e dell’ambiente e l’ente Parco delle Madonie a richiedere un intervento che potesse limitare la presenza dei daini sul territorio sono ufficialmente molte.
Le principali sono l’assenza caratteristica di predatori di grossa taglia all’interno del territorio siciliano (l’ultimo lupo, tra l’altro endemico, della Sicilia è stato abbattuto negli anni 20, Canis lupus cristaldii), i relativi danni provocati alla flora dall’eccessiva presenza di erbivori in un’area di 39 mila ettari che ha una elevata importanza conservazionistica, e il “pericolo” rappresentato dal potenziale incontro dei daini con gli escursionisti, che potrebbero cadere vittima di un'aggressione da parte di giovani esemplari impauriti.
Riguardo a quest’ultimo punto, i movimenti ambientalisti siciliani si stanno attivando da tempo, cercando di spiegare alle autorità l’assurdità di un ragionamento che non considera la realtà del turismo sostenibile all’interno di un’area fra le più protette e antiche della Sicilia.
Come sostengono molti degli esperti interpellati dall’assessorato o dall’associazioni ambientaliste, il pericolo descritto dalla regione nell’incontrare un animale selvatico da una parte sottopone l’ente pubblico nel limitare i possibili incontri con tutti gli animali pericolosi, all’interno di un’area naturale, (come vipere, zecche, cinghiali, aquile, volpi e tutte le altre fiere che possono arrecare un danno fisico ad una persona), ma questo porrebbe la regione nella difficile scelta o di abbattere tutte le potenziali minacce o di impedire l’accesso alle aree naturali a tutte le persone desiderose di entrare in contatto con la natura; dall’altra negherebbe la verità facilmente verificabile che esistono davvero pochissimi casi di aggressione da parte dei daini, in un territorio nazionale dove ogni anno sussistono molti più morti e feriti causati dalla caccia o dall’ingestione di funghi ed erbe selvatiche velenose. In pratica, l’uomo stesso arreca molti più danni a sé stesso di quanto possano fare gli animali che vivono allo stato selvatico, ricordando fra l’altro come il contatto con la flora e le bestie selvatiche sia da secoli uno dei moventi più espliciti che portano migliaia di turisti e cittadini a voler esplorare liberamente la natura.
Riguardo ai danni provocati dai daini alla vegetazione e all’assenza di grossi predatori in Sicilia – al di fuori dell’uomo – tutti gli esperti concordano. L’estinzione del lupo è stato probabilmente il momento più tragico dell’intera storia della biodiversità siciliana dell’ultimo secolo e mezzo. Altra questione riguardano però le soluzioni adottate dalla regione per limitare i danni provocati dagli erbivori, che di fronte l’oggettiva assenza di controlli da parte delle autorità, mettono in maggior pericolo la fauna, anche qualora i cacciatori (o chi per loro) vengano mossi da intenti nobili e non strettamente egoistici.
L’abbattimento dei daini di questi giorni è un esempio perfetto di come una soluzione raffazzonata possa peggiorare un problema e condurre interessi esterni (come quelli delle associazioni venatorie) a provocare disastri peggiori di quelli che si tentava di contrastare. D’altronde la letteratura scientifica è piena di esempi che dimostrano come la cattiva gestione della fauna possa condurre a esiti apocalittici e poco scontati. Come l'estinzione del lupo siciliano di poco sopra, abbattuto perché considerato pericoloso nelle Madonie ed oggi rimpianto dagli ecologi.
Il daino, animale controverso
Prima di andare ad elencare le proposte degli esperti del CRPPN (Consiglio regionale per la protezione del patrimonio naturale) inerenti al controllo della popolazione dei daini, dovremmo porci la domanda fondamentale che bisognerebbe porsi quando si vuole andare a parlare materialmente del controllo di una specie selvatica: si tratta di una specie esotica? Autoctona? Endemica?
Per quanto riguarda la specie Dama dama la questione è molto confusa.
Esistono delle tracce archeologiche e rupestri della presenza preistorica di cervidi all’interno del territorio palermitano – fra tutti i famosi graffiti della “Grotta dell’Addaura” a Palermo – ma non abbiamo la certezza che il daino sia fra i cervidi presenti all’interno dei reperti e delle raffigurazioni preistoriche siciliane.
Secondo alcuni paleontologi, la presenza del daino in Sicilia si può spiegare con la spinta indotta dalle calotte di ghiaccio dell’ultima era glaciale – quella nota come Würm – che indusse le acque a ritirarsi e a favorire la migrazione verso sud in molti animali. Altri paleontologi contestano però questa teoria e asseriscono che i cervidi giunsero in Sicilia attraverso il commercio favorito dai primi coloni greci, che da Marsiglia negoziarono l’esportazione di daini per il consumo domestico in tutto il territorio greco, che aveva in Sicilia la sua principale roccaforte al di fuori del Peloponneso.
Altri affermano infine che furono antichi popoli neolitici a diffondere il daino in Europa. Di sicuro sappiamo che Lucrezio riporta in epoca romana la presenza di questi cervidi in tutta la penisola italiana, ma la popolazione che attualmente abita in Sicilia è direttamente imparentata con le antiche popolazioni introdotte dai greci e dai romani?
La verifica positiva di questa supposizione metterebbe in seria difficoltà la scelta dell’assessorato e del Parco dei Nebrodi di utilizzare i cacciatori come strumento di controllo della popolazione dei daini, poiché si tratterebbe di usare un metodo oltre modo violento per contrastare una popolazione endemica ed autoctona facente parte della Biodiversità siciliana.
Le problematiche non si fermano però qui.
Anche se l’attuale popolazione non dovesse derivare dalle antiche popolazioni di daini liberati in epoca greca e romana, la successiva reintroduzione della specie nel territorio siciliano dovrebbe essere avvenuta prima del 1500, rendendo di fatto Dama dama una delle tante specie parautoctone, come sostenuto dal decreto ministeriale del 19 gennaio 2015, e perciò specie meritevole di essere considerata naturalizzata come le specie indigene.
A differenza però di altre specie come l’istrice, sia lo stesso decreto ministeriale che l’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) non definiscono il daino parautoctono per la Sicilia, distinguendosi rispetto allo stesso piano di gestione del Parco delle Madonie (a pagina 48, paragrafo 8), che lo definisce invece così, andando a creare maggiore confusione all’interno del panorama conservazionistico siciliano.
La presenza di cervidi in un periodo anteriore al 1550 sull’isola potrebbe inoltre essere spiegata con la presenza di altre specie oggi estinte della stessa famiglia ed è perciò difficile sbilanciarsi a favore o contro una teoria, senza il parere diretto dell’Ispra che definisca in maniera approfondita per la Sicilia lo status del daino.
Venendo considerato per metà degli abitanti delle Madonie un abitante autoctono e per l’altra metà una specie alloctona dannosa, l’ente Parco ha però deciso di tagliare la testa al problema e d’indire il piano di abbattimento per limitare i danni causati dalla specie. Le conseguenze di questa scelta potrebbero però rilevarsi fatali.
Un pericoloso messaggio
Oggi, all’interno di un’area naturale come il Parco delle Madonie, rinomato in tutto il mondo per la sua diversità, è possibile praticare la caccia, usando tutti i sistemi necessari per abbattere l’animale che si è deciso di uccidere. Il piano di contenimento indica l’utilizzo di munizioni atossiche, ma come sostenuto dal Partito animalista e da molti sostenitori che si preoccupano per la salute dell’ecosistema, non esistono controlli efficenti che impediscono l’uso di proiettili con piombo e cani da caccia.
L’impiego di queste due armi è ciò che reca maggiore preoccupazione negli ambientalisti.
È comune attraversare un sentiero nei pressi del parco delle Madonie e ritrovare i bossoli dei proiettili, che se da una parte inquinano direttamente il terreno, dall’altra rappresentano una minaccia se ingeriti, soprattutto per i pochi predatori esistenti sull’isola, come volpi, aquile e grifoni. E visto che parte dei daini uccisi vengono addirittura smaltiti attraverso il trasferimento all’interno dei carnai, luogo di approvvigionamento per i rapaci e i saprofagi, è facile comprendere come il rischio di avvelenamento da piombo sia molto alto in quelle specie già storicamente colpite e sensibili al problema.
Non è detto poi che un cacciatore riesca ad abbattere al primo colpo un daino in fuga. L’animale ferito potrebbe diventare aggressivo e fare la fine del cinghiale che settimana scorsa ha attaccato le autorità, per colpa di una ferita al muso che sembrava insopportabile.
Inserire i cacciatori poi all’interno dei piani di contenimento della fauna selvatica comporta anche un problema etico. Cosa spinge i cacciatori a partecipare infatti a questi piani di abbattimento, se non l’interesse diretto di poter sparare a della fauna a cui sono solitamente negate le loro doppiette?
«Ci chiediamo come mai non sia stata adottata una soluzione alternativa come, peraltro, già fatto in altre aree protette. Insieme al nostro ufficio legale, stiamo cercando di capire se sono state rispettate tutte le leggi in materia di tutela animale», ha affermato Battipaglia, riferendosi al problema.
Gli esperti del settore alla fine già lo sanno: esistono altri metodi, altre opzioni, per controllare direttamente le dimensioni delle popolazioni di cinghiali, daini e di altri erbivori che arrecano danno alla vegetazione naturale. Una di queste soluzioni è l’impiego dei recinti di cattura, che per quanto condanna gli animali ad essere eliminati tramite delle trappole o a colpi di fucile, almeno circoscrive l’area in cui è possibile abbattere le fiere e permette di controllare i numeri degli abbattimenti, senza dare troppa libertà ai cacciatori che il più delle volte falliscono nel loro intento e si spostano solo nelle aree periferiche e provviste di strade, andando perciò a non eseguire “il loro compito” all’interno dell’aree maggiormente interessate dai danni ambientali causati dagli animali stessi.
Inoltre i componenti del CRPPN e le associazioni ambientaliste segnalano come all’interno dei parchi regionali siciliani e degli assessorati manchino spesso le figure di riferimento adeguati allo sviluppo dei lavori come quelli legati alla gestione (includendo pianificazione e analisi dei dati dei censimenti, oltre al monitoraggio con trasmettitori satellitari) e cattura della fauna, che dovrebbero essere principalmente professionisti esperti, principalmente con laurea in scienze biologiche o in scienze naturali, e non figure provenienti da altre aree del sapere come veterinaria o architettura.
A seguito di queste affermazioni si ricorda come migliaia di giovani scienziati sono stati costretti ad abbandonare la Sicilia nel corso degli ultimi decenni, quando il lavoro su questi settori – in un territorio così ricco di vita – ufficialmente non mancava. La politica però ha impedito a questi giovani di trovare le opportunità migliori per salvaguardare la flora e la fauna di casa propria, come nel suo complesso il territorio siciliano. Questa è un’annotazione triste di questa vicenda.
Mentre personale esperto e desideroso di lavorare veniva abbandonato al proprio destino, magari indotto dalla situazione lavorativa e professionale a migrare all’estero, fra Malta, Spagna e il resto dell’Europa, i cacciatori oggi vengono chiamati dalle istituzioni per adempiere ad una missione che non gli spetta: salvaguardare le nostre risorse floristiche e faunistiche.
Tale è forse il messaggio peggiore che potesse scaturire da questa storia. Anni di conservazione della natura rischiano di andare persi, per colpa degli interessi di pochi.