In principio fu Aibo, modello (perché di questo si tratta) firmato Sony che riproduceva le fattezze di un cucciolo, in vendita a poco meno di 3.000 dollari. Dopo di lui è arrivato Scrappy, il cane robot di Boston Dynamics, decisamente meno somigliante a un cane rispetto ad Aibo ma in grado di riprodurne tutti i comportamenti e aggiungerne altri (come aprire porte, riempire la cesta dei panni sporchi, riordinare casa o raccogliere legna).
Adesso alla lista di aziende che hanno deciso di applicare l’intelligenza artificiale agli animali d’affezione c’è Xiaomi: il colosso cinese ha presentato nei giorni scorsi CyberDog, un robot quadrupede dotato di sensori di ogni genere, videocamera e gps in grado tra le varie cose di percepire l’ambiente circostante, di correre a una velocità massima di 11 chilometri all'ora e di seguire il suo proprietario – e in questo caso la definizione è perfetta, essendo una cosa – oltre che di riconoscere volti e ostacoli.
Il progetto è ancora a livello di sperimentazione e la commercializzazione di CyberDog pare ancora lontana. Xiaomi ha annunciato l’intenzione di mettere a disposizione di una ristretta comunità di appassionati ed esperti 1.000 unità per consentire una serie di test e raccogliere impressioni, ma la notizia ha inevitabilmente riacceso il dibattito su un tema già affrontato in passato anche da Kodami: la tendenza della società moderna a relegare il cane al ruolo nemmeno più di “pet”, ma addirittura a trasformarlo in un oggetto vero e proprio senza altra funzione se non quella di allietare (e spesso obbedire) a un "padrone" e ad approcciarsi al cane non più come a un essere vivente con bisogni, emozioni e necessità.
Questo meccanismo lo spiega diffusamente Luca Spennacchio, istruttore cinofilo e membro del comitato tecnico scientifico di Kodami, che proprio sulla relazione tra uomo, cane e macchine si concentra: «Credo che parlando di cani robot non si debba parlare tanto della parte cane, quanto della parte robot. Bisogna analizzare il rapporto che le persone hanno con le macchine: le persone sgridano il cellulare o il computer quando si impalla, e interagiscono con le macchine come se fossero esseri viventi. La natura umana è d’altronde fortemente relazionale, relazionarsi è un bisogno primario: basta pensare al film “Cast Away”, dove il protagonista, rimasto solo su un’isola deserta, si affeziona a un pallone cui dà le fattezze di un viso e si comporta con lui come se fosse un amico. Quando nel film il pallone viene smarrito, la disperazione del protagonista tocca anche lo spettatore. Il pallone per lui era un essere vivente di cui ha un vitale bisogno, perché tutti gli umani hanno un vitale bisogno di relazionarsi con qualcosa».
L'illusione della relazione
La conseguenza diretta, insomma, è che in una società come quella odierna relazionarsi con le macchine, con un’intelligenza artificiale, è la norma, pur a diversi livelli. E capita che ci si dimentichi, a livello superficiale, che non si ha a che fare con un essere vivente, ma con una macchina priva di entità cognitiva. Se poi la macchina agisce scimmiottando un essere vivente, e magari eliminando anche tutte quelle caratteristiche che possono rivelarsi un disturbo o un fastidio, l’illusione è ancora più forte.
«Potrei citare il libro di Philip K. Dick, "Blade Runner" – prosegue Spennacchio – tutta la storia è impostata su questo: l’illusione del robot che si comporta come un essere vivente, che parla e pensa, ma che alla fine non è un essere vivente. La nostra storia biologica ci ha forgiato di caratteristiche tali che non possiamo però essere appagati realmente dell’interazione con una macchina, perché non è un essere vivente, e Dick lo spiega bene: in "Blade Runner" tutti gli animali sono esseri meccanici, e le persone non riescono a interagire umanamente con loro perché manca quello che per gli umani è essenziale: l’empatia. L’interazione con la macchina, per quanto sofisticata, non è mai abbastanza, perché quella tra essere viventi ha qualcosa di più profondo rispetto».
Che cosa spinge allora le persone a mettersi in lista d’attesa per aggiudicarsi un cane robot, e poi a comportarsi con lui come se fosse vero? «Credo che oggi abbiamo relazioni così superficiali anche con gli essere viventi che molti si relazionano con il cane come se fosse una macchina – riflette Spennacchio – e con il progresso della tecnologia forse arriverà un giorno in cui alcune persone non si accorgeranno della differenza. Ma il problema sta nella relazione che queste persone costruiscono con il cane, si tratta di persone che concepiscono il rapporto non come una relazione o uno scambio reciproco, ma come una sottomissione. Il cane, per queste persone, deve svolgere determinate funzioni e comportarsi in determinati modi, in caso contrario non è più utile allo scopo. Ed è probabilmente per questo che molti cani finiscono in canile: vengono cambiati per un "modello" più nuovo o più bello, eliminati perché considerati guasti o inadeguati, accantonati perché non più funzionali».
L'esperta: «Necessario vigilare su queste nuove tecnologie»
Che la macchina abbia le fattezze di un cane, insomma, poco importa: alla base di un potenziale successo dei cani robot c'è il desiderio di una relazione facile, priva di compromessi e fatica e non vincolante, perché «il cane robot a un certo punto si può spegnere», come spiega Sonia Campa, esperta di comportamento animale e anche lei membro del comitato tecnico scientifico di Kodami.
«Non mi stupisce che un'altra azienda si affacci su questo panorama – conferma – c'era da aspettarselo, è d'altronde la direzione che si sta prendendo. Ma se non assumiamo un atteggiamento critico verso questo tipo di iniziative, la situazione non potrà che peggiorare. Quella di oggi è una corsa alla tecnologia, e un futuro in cui i cani o i gatti potrebbero essere sostituiti da cyborg rischia di diventare concreto se non assumiamo un atteggiamento di vigilanza».
La consapevolezza di ciò che sta accadendo, insomma, è fondamentale per evitare che l'innovazione tecnologica sfugga di mano:«Non riusciamo a risolvere problemi giganteschi e urgenti come la crisi climatica – prosegue Campa – figuriamoci se siamo in grado di percepire un cambiamento così radicale come quello nella relazione uomo animale. Lo scetticismo può valere sugli adulti di oggi, ma io penso ai nativi digitali, ai bambini che nascono in mezzo a macchine e dispositivi: per loro sarà molto più naturale interagire con una macchina. Bisogna stare molto vigili, perché è vero che per questi cani robot ci saranno anche applicazione utili, pensiamo per esempio alla sostituzione dei cani anti mina, ma la storia ci insegna che quando l’uomo crea una nuova tecnologia non le usa sempre solo per scopi nobili, ma ne estende l’utilizzo anche ad altri ambiti più rischiosi».