Seguire e creare una libreria genomica degli animali che bisogna proteggere è uno dei compiti più gravosi che un esperto in conservazione e gestione della fauna deve affrontare. In parte perché a secondo della specie e della nazione in cui ci si trova, ci si può trovare costretti a viaggiare chilometri solo cerare un animale. Poi, se tale animale in questione, non è facilmente manipolabile o non offre molte opportunità per studiarlo o prelevare campioni, la difficoltà nello svolgere il compito si aggrava ulteriormente.
A questo problema, sempre più i ricercatori e coloro che gestiscono i grandi parchi e le riserve hanno tentato di rispondere decidendo di adottare tecniche alternative di monitoraggio, che permettono di costruire ugualmente una grande libreria di dati e di tenere sotto controllo le dimensioni della popolazione e lo status di salute di una specie. Come è avvenuto per questo studio pubblicato su Frontiers, che ha dimostrato come sia stato funzionale usare un approccio integrato durante lo studio della fauna selvatica africana, tra cui Loxodonta africana, noto comunemente come elefante africano di savana, per carpire informazioni essenziali tramite l'istituzione di una libreria di sequenze genetiche estratte.
In questo studio gli scienziati, guidati da dei veterani di questa tipologia di ricerca dell'Università dell'Illinois a Urbana-Champaign, negli Stati Uniti, hanno infatti studiato l'elefante tramite la commistione fra tecniche genomiche che utilizzano il campionamento biologico non invasivo e l'uso di algoritmi computazionali. Estraendo infatti campioni di DNA dalla materia fecale gli esperti sono stati in grado di compiere un sequenziamento oltre il 90% del genoma nucleare dell'elefante africano, permettendo la costruzione della libreria genomica che ha permesso poi successivamente di aumentare le conoscenze sulla distribuzione geografica e la diversità tassonomica della specie. Questa tecnica, inoltre, si presenta alla ricerca anche come proposta per risparmiare tempo, soldi e fatica, rispetto alle classiche procedure fisiche di raccolta dei campioni biologici che prima mettevano a rischio la vita degli animali selvatici, con un incremento notevole dei costi.
L'intento dell'articolo su Frontiers è stato proprio quello dunque di mostrare come un protocollo simile a quello utilizzato per gli elefanti africani possa essere realizzato e sfruttato ovunque ci sia di bisogno di compiere monitoraggi molto lunghi e difficili da realizzare, descrivendo quali siano le tecniche migliori da integrare. «In questo studio abbiamo mirato a combinare quanto segue: 1) un protocollo di raccolta ed estrazione del DNA semplificato e accessibile che utilizza una scheda di conservazione del DNA standard (dove si campiona il DNA), che non richiede refrigerazione ed è facile da trasportare e conservare; 2) un protocollo per la costruzione di librerie genomiche e il sequenziamento shotgun (tecnologia specifica per sequenziare un genoma, N.d.R) che non richieda l'arricchimento o l'amplificazione mirata del DNA; e 3) valutare l'utilità e il potenziale dei dati generati attraverso l'applicazione dell'analisi su scala genomica e della metagenomica di zoo e elefanti liberi nei loro ambienti nativi».
Gli elefanti sono stati tra l'altro i candidati ideali per testare un protocollo così innovativo e non invasivo, in quanto il campionamento invece invasivo degli elefanti è quasi sempre stato molto pericoloso e costoso ed era necessario visitare aree impervie e molto grandi per raggiungere l'animale. Invece con la raccolta della "pupù" gli scienziati hanno ottenuto informazioni per ottenere un gran numero di risultati, stabilendo per esempio la parentela fra gli esemplari di diversi gruppi, l'ibridazione tra elefanti della foresta e della savana, il flusso genico della popolazione e la dimensione della popolazione.
Inoltre la grande innovazione del monitoraggio che usa la combinazione tra l'estrazione dal DNA fecale con l'uso di droni e altre tecniche, permette a molti conservazionisti di monitorare lo status di salute di qualsiasi animale in pochi giorni. E qualora dalle indagini risultassero informazione sconfortanti, i veterinari e i volontari di un parco potrebbero decidere di intervenire in tempo, pur di garantire il benessere all'esemplare, soprattutto se appartenente ad una specie da proteggere, in maniera similare a come si muovono in questi casi i veterinari di uno zoo.
«La combinazione di metodi qui presentati può espandere l'applicazione delle tecniche genomiche alla scienza della conservazione» hanno difatti dichiarato i ricercatori, andando a delineare però anche i limite del loro protocollo di monitoraggio tramite lo studio DNA fecale. «Tuttavia, i ricercatori dovrebbero considerare il taxon e il sistema di studio di interesse quando sviluppano progetti di ricerca poiché i fattori specifici del taxon potrebbero influire sui risultati dello studio. Ad esempio Zoelzer et al. (2021) mostrano che la diversità del microbioma fecale è significativamente più alta negli erbivori rispetto ai carnivori, mentre la variazione del microbioma intraspecifico è elevata nei carnivori ma non negli erbivori. La considerazione di fattori specifici del taxon (ad esempio, la dieta e il contesto ecologico dell'ambiente in cui si trovano gli organismi) può quindi contribuire a garantire il successo delle iniziative di ricerca. L'analisi metagenomica che abbiamo applicato in questo studio mette però in mostra la potenziale utilità degli approcci molecolari e bioinformatici per affrontare domande complementari basate sul DNA che possono riguardare anche la conservazione delle specie».