La Cop26 di Glasgow è giunta a termine e non è andata proprio come si sperava. I leader dei 197 paesi presenti al summit internazionale dell’Onu portano a casa un accordo, il Glasgow Climate Pact, che parla molto di futuro e pochissimo di presente. «Per la tutela della biodiversità si deve combattere oggi. In un mondo senza fauna e privato delle sue risorse naturali non ha senso discutere di economia, perché a quel punto non ci sarà più niente», dice a Kodami Eleonora Evi, europarlamentare e portavoce di Europa Verde.
Le promesse tradite alla Cop26
Era solo il 31 ottobre quando i capi di stato presenti al G20 di Roma si sono fatti immortalare nell’atto di lanciare una monetina nella fontana di Trevi. Un gesto che sarebbe dovuto essere di buon auspicio anche per la Conferenza sul clima dell’Onu che stava per iniziare. Invece il summit di Glasgow si chiude con le lacrime del presidente della Cop26, Alok Sharma, che durante la conferenza stampa conclusiva si è scusato per le modalità poco trasparenti con cui si è svolto il processo di negoziazione: «L'accordo era in bilico ma siamo riusciti a raggiungere il traguardo», ha detto il parlamentare inglese in conferenza stampa.
Ma di che tipo di traguardo si tratta? Nel processo di negoziazione non sono stati neanche toccati dossier fondamentali come l'impatto della zootecnica e degli allevamenti sul clima, solo questi responsabili di gran parte delle emissioni di gas serra causa dell'innalzamento delle temperature. Assente anche un riferimento agli ecosistemi marini e al ruolo che questi svolgono in favore della mitigazione del clima. Insomma, ancora una volta la tutela della biodiversità è stata relegata al ruolo di fanalino di coda.
A essere soddisfatti dell'accordo conclusivo della Conferenza delle Parti sul clima sembrano essere solo le grandi potenze, su tutte Cina, Usa e India. Molto meno contenti i rappresentanti dei paesi in via di sviluppo, nonostante il positivo accordo stipulato tra Colombia, Costa Rica, Ecuador, e Panama per la conservazione degli ecosistemi compresi nel corridoio marino del Pacifico orientale tropicale.
I paesi di Sud e Centro America e del continente africano restano quelli maggiormente insoddisfatti, perché sono anche quelli che hanno più da perdere da un innalzamento repentino delle temperature. Mia Mottley, premier delle Barbados ai colleghi riuniti a Glasgow aveva sottolineato l'importanza di una programmazione chiara per il contenimento delle temperature: «Due gradi è una condanna a morte per il popolo di Barbuda, di Antigua, delle Maldive, della Dominica, del Kenya, del Mozambico e per il popolo di Samoa e delle Barbados». Il riferimento di Mottley è all'Accordo di Parigi, l'altro grande summit internazionale sul clima del 2020, che prevedeva di restare entro l'aumento delle temperature di 2 gradi.
L'accordo finale di Glasgow è invece riuscito a superare Parigi e a mettere nero su bianco l'aumento delle temperature entro i 1,5 gradi. A scatenare perplessità sono però le modalità aleatorie in cui questo contenimento dovrebbe essere concretamente messo in atto dai paesi. «Così non può andare – ribadisce Evi – Quello approvato è un testo che non è riuscito a parlare di date per l’abbandono dei combustibili fossili, e neanche un impegno certo e più preciso per il contenimento delle temperature».
Ma oltre al partito dei Verdi a bocciare questo summit, iniziato sotto i migliori auspici e finito con le lacrime di Sharma, sono stati gli attivisti.
Il punto interrogativo della deforestazione
Un accordo internazionale pieno di «vaghe promesse», spiega Eleonora Evi, come quella relativa alla deforestazione: «La promessa di fermare la deforestazione entro il 2030 è il simbolo dell'ipocrisia di questa COP26». 134 paesi hanno firmato l'accordo per fermare la deforestazione al 2030 (mancano all'appello Cina, India e Russia), ma nonostante lo stanziamento di 19,2 miliardi di dollari in favore di questo obiettivo la portavoce di Europa Verde rimane molto scettica: «Questo impegno è ridicolo, la deforestazione va fermata oggi. Sia perché polmoni verdi come l'Amazzonia assorbono naturalmente il carbonio presente in atmosfera, aiutando la regolazione del clima, sia perché per distruggere le foreste spessissimo si usa il fuoco, una pratica che aumenta il livelli di Co2, e quindi contribuiscono ad accelerare il cambiamento climatico».
L’allevamento, denuncia la Lav, resta però la causa principale di deforestazione: una quota molto importante delle terre deforestate è proprio destinata al pascolo e alla coltivazione di mangimi per gli animali allevati, in particolar modo nei paesi dell’America latina come il Brasile. L'accordo contro la deforestazione porta la firma anche del presidente Jair Bolsonaro che, però, proprio a causa dello sfruttamento indiscriminato delle risorse dell'Amazzonia è stato denunciato dall'Associazione dei popoli indigeni del Brasile (Apib) sia in patria che al Tribunale dell'Aja.
Proteggere l'Amazzonia, e in generale i polmoni verdi della Terra, è uno degli obiettivi mancati della Cop26, che non ha saputo valorizzare le soluzioni basate sulla natura. Lo dice chiaramente a Kodami Mariagrazia Midulla responsabile Clima ed Energia del WWF: «Dall'accordo finale del Glasgow Climate Pact è scomparso il termine “nature based solutions”, un atto che sembra negare il ruolo della natura nella lotta al cambiamento climatico. È questa infatti a fornirci la maggiore difesa dagli impatti climatici».
A farla da padrone alla Cop 26 sono stati, nel bene e nel male, i combustibili fossili, e soprattutto il carbone. Contravvenendo all'urgenza climatica che chiederebbe di stoppare l'uso del carbone, l'accordo finale prevede una riduzione graduale. Troppo graduale, che per alcuni paesi, come l'India, si potrebbe protrarre fino al 2070. Non un grande risultato in termini di impatto sul clima. «Purtroppo si è verificato quello che temevamo di più – sottolinea Midulla – i governi invece di costruire utilizzando come base la prima bozza di accordo hanno cominciato a togliere. Questo ha fatto sì che la parte dei combustibili fossili sia stata notevolmente indebolita. Eppure i prossimi 10 anni saranno decisivi saranno decisivi sotto questo fronte». Alla fine solo quaranta Stati si sono impegnati per la prima volta ad eliminare il carbone nell'arco di vent'anni.
«Il carbone è il combustibile fossile che provoca più danni e che ha visto un ridimensionamento forte anche negli Usa – sottolinea la rappresentante del WWF – Purtroppo però in alcuni paesi, anche europei, è una fonte d’energia molto disponibile e per questo ritenuta irrinunciabile». Tuttavia per Midulla è sbagliato concentrarsi solo sul carbone: «Anche gli altri combustibili fossili fanno molto male al nostro ecosistema. Le emissioni derivanti dall’uso del gas metano sono in grande aumento e costituisce un problema a livello mondiale. Oltre al petrolio naturalmente».
Mare e zootecnica: i grandi assenti
Contro i gas metano è intervenuta la Lav, che ha definito l'accordo finale addirittura «diabolico», anche perché «l’impatto della zootecnia rimane trascurato e fuori dai negoziati, mentre l’emergenza climatica è sempre più presente e si manifesta con numerosi eventi distruttivi al giorno», spiegano gli attivisti. «Per ridurre le emissioni di gas climalteranti e mettere un freno al cambiamento climatico va riconosciuta in modo esplicito la necessità di ridurre il numero degli animali allevati e orientare l’intero sistema alimentare verso produzioni e consumi di cibi vegetali».
Altro grande assente dalle negoziazioni della Cop26 è stato il mare, come denuncia Marevivo: «Fenomeni come l'aumento del 30% dell'acidità in pochi anni, la diminuzione del 20% delle barriere coralline, l'aumento della temperatura, la perdita di biodiversità, sono nemici mortali da fronteggiare subito ed è responsabilità comune di tutti gli Stati adottare provvedimenti per dare al mare un futuro sano, resiliente e sostenibile». Marevivo ha evidenziato come durante i lavori la questione è stata affrontata solo a livello di innalzamento del suo livello e mai in funzione di provvedimenti o azioni di tutela comuni, facendo della COP26 un'occasione mancata per dare il giusto riconoscimento al legame tra oceani e crisi climatica. «Abbiamo perso un'occasione importante – dice Rosalba Giugni presidente di Marevivo – Stiamo assistendo ad un degrado esponenziale ai danni della vita del mare e dei suoi ecosistemi e non c'è più tempo. Occorrono provvedimenti immediati e concreti».
È evidente che chi teneva in mano le redini del gioco non è riuscito ad attuare una strategia vincente, lo ammette il direttore dell'Onu Antonio Guterres a conclusione del summit: «I testi approvati sono un compromesso. Gli accordi riflettono gli interessi, le condizioni, le contraddizioni e lo stato della volontà politica nel mondo oggi». Se un simile compromesso sarà sufficiente a salvaguardare la fauna e la biodiversità della Terra, però, è un'altra storia.