«Quando le ricette per la conservazione degli orsi vengono calate dall'alto, senza il confronto con la comunità, ecco che la popolazione locale si dimostra meno disponibile a modificare le proprie abitudini per salvaguardare gli animali. È giunto quindi il momento di coinvolgere attivamente gli attori locali per disegnare progetti di coesistenza sempre più funzionali sia per le comunità umane che per i grandi carnivori». Così lo zoologo dell'Università La Sapienza di Roma, Paolo Ciucci, commenta con Kodami la ricerca condotta dal suo ateneo in collaborazione con l'Istituto spagnolo di studi sociali avanzati insieme con il Parco Nazionale d'Abruzzo Lazio e Molise (Pnalm) e pubblicata sulla rivista scientifica Journal for Nature Conservation.
Lo studio ha analizzato gli elementi che rendono possibile la coesistenza funzionale di uomini e orsi. Lo ha fatto sfruttando tecniche di human dimension, una branca del sapere che utilizza elementi di antropologia sociale e culturale applicati alla conservazione delle specie animali e vegetali. «In passato – spiega Ciucci – tutta l'attenzione era rivolta agli aspetti biologici, oggi sappiamo che bisogna affrontare anche il tema della percezione delle popolazioni che si interfacciano con gli animali, soprattutto in contesti densamente abitati come l'Italia».
A questo scopo, a condurre lo studio c'è una squadra multi disciplinare composta, tra gli altri, da Jenny Anne Glikman, ricercatrice dell'Istituto di studi sociali (IESA-CSIC); Daniela D'Amico, responsabile dell'Ufficio Promozione e Comunicazione del Pnalm; Luigi Boitani professore e presidente della Large Carnivore Initiative for Europe; oltre allo stesso Paolo Ciucci.
L’Abruzzo ricorda l’orso marsicano Juan Carrito
I ricercatori hanno somministrato 196 questionari ai rappresentanti di 5 categorie le cui attività risentono in maniera particolare della presenza dei plantigradi: pastori, cacciatori, guardie parco, guardie forestali e proprietari di alberghi. «Abbiamo cercato di indagare quali sono i comportamenti dei principali attori all'interno della popolazione locale nei confronti dell'orso abruzzese – sottolinea Ciucci – Si tratta di qualcosa che non era mai stato fatto. Precedente ci si era soffermati sul panorama nazionale e sulla popolazione generale, mentre oggi siamo andati più a fondo, ascoltando le esigenze degli stakeholder, cioè coloro che hanno una connessione diretta con l'orso».
Orso bruno europeo e orso marsicano: due mondi differenti
Il tema orsi è tornato prepotentemente all'attenzione pubblica quest'anno, a seguito della morte di Andrea Papi, il 26enne trovato senza vita nei boschi circostanti la sua abitazione di Caldes, in Val di Sole. Ad uccidere il giovane, secondo la perizia della Fondazione Edmund Mach, è stata l'orsa JJ4, soprannominata Gaia.
Da quel momento, la Provincia autonoma di Trento guidata dal presidente Maurizio Fugatti ha iniziato una campagna mediatica di tolleranza zero nei confronti della sua popolazione di orsi bruni, chiedendo l'abbattimento sia di JJ4 che di MJ5, l'orso che ad aprile ha aggredito, in maniera non mortale, un uomo in Val di Rabbi. I decreti di abbattimento sono stati sospesi per intervento del Tar, ma il tribunale mediatico e politico continua a lavorare, talvolta fornendo un'opera di disinformazione che mette in pericolo tutti gli orsi italiani, e non solo quelli trentini.
«Dopo gli eventi di Caldes si è scatenata attenzione mediatica molto forte nei confronti dei grandi predatori – ricorda il professore Ciucci – ma non dimentichiamo che l'orso è presente anche in altre parti d'Italia, come in Appennino ad esempio, dove è presente una popolazione che differisce dalle altre europee per caratteristiche morfologiche e comportamentali».
La popolazione di orso bruno (Ursus arctos) presente oggi in Trentino è stata reintrodotta all'inizio degli anni Duemila nell'ambito del progetto Life Ursus. Pur non essendo una specie in via a rischio, nelle nostre Alpi centrali era rimasto solo uno sparuto gruppo di maschi, destinati a estinguersi. Per questo il Parco dell'Adamello-Brenta con la Provincia Autonoma di Trento e l’Istituto Nazionale della Fauna Selvatica, usufruendo di un finanziamento dell’Unione Europea, ha rilasciato in Trentino 10 individui provenienti dalla Slovenia, tra cui anche i genitori di JJ4 e MJ5. Oggi, a vent'anni di distanza dalla reintroduzione, sono circa 100 gli orsi presenti in Trentino.
Una situazione del tutto diversa da quella dell'Appennino centrale italiano, dove la popolazione di orso bruno marsicano (Ursus arctos marsicanus) è effettivamente a rischio di estinzione, dato che si tratta di una sottospecie endemica, da molti esperti ritenuta una separata da quella dell'orso bruno europeo. «L'orso in Abruzzo c'è sempre stato, e non si sono mai verificati casi di aggressione – sottolinea Ciucci – Tra le sue peculiarità comportamentali c'è proprio la minore aggressività. Ciò probabilmente è dovuto a una selezione involontaria da parte dell'uomo che ha perseguitato gli individui più confidenti o temerari. Tuttavia, è possibile anche che l'isolamento abbia contribuito a ridurre la variabilità genetica della popolazione, e tra i caratteri perduti potrebbe esserci proprio l'aggressività. Si tratta di un processo che abbiamo già osservato all'interno di piccole popolazioni di mammiferi».
Proprio in virtù delle sue peculiarità, l'orso marsicano è noto come il più raro del mondo. Ne esistono circa 60 individui al mondo, tutti in Italia centrale, e per preservarne la popolazione non può essere attuata alcuna introduzione di elementi esterni, i quali andrebbero ad alterare un patrimonio genetico unico. Da qui l'enorme importanza che questi orsi hanno agli occhi degli esperti di conservazione, ma anche il grande valore che negli anni hanno assunto per l'economia locale che oggi punta moltissimo sull'immagine di questo plantigrado.
I risultati dello studio
È impossibile visitare uno dei 25 Comuni del Parco nazionale d'Abruzzo, e anche della zona limitrofa, senza imbattersi in attività commerciali che richiamino l'orso e la fauna selvatica. Da Scanno a Villalago, passando per Pescasseroli e Roccaraso, esistono ristoranti e alberghi che hanno basato la loro identità sulla natura che li circonda.
Un rapporto che per Ciucci non può essere ignorato quando si parla di conservazione: «A confronto con l'alta tensione presente oggi nella popolazione trentina, in Italia centrale abbiamo un modello totalmente differente: qui si è riscontrata l'attitudine estremamente positiva da parte di tutte le categorie coinvolte nella ricerca. Tutti sono per la protezione dell'animale e lo considerano una risorsa importante a livello locale. Questo, di per sé, è già un dato molto rilevante. Ma la cosa più sorprendete è che anche le categorie storicamente più impattate dall'orso mostrano attitudine positiva, sebbene con i dovuti distinguo».
Guardia parco e forestali rivelano un atteggiamento estremamente positivo nei confronti degli orsi, così come gli albergatori. Discorso diverso per cacciatori e pastori, i quali a causa delle limitazioni alla caccia e alla perdita di bestiame possono ritenere di dover sostenere i costi più elevati della condivisione del territorio con gli orsi, e per questo avere un atteggiamento meno positivo. «Alla domanda se fossero disposte a modificare loro abitudini di caccia o allevamento per aumentare le probabilità di conservazione di questa specie non c'è stata grande adesione – ammette lo zoologo – Sebbene ci sia attitudine generalmente positiva, c'è una certa resistenza a contemplare modifiche».
Nonostante la volontà di tutelare la fauna selvatica, cacciatori e allevatori temono limitazioni alla loro libertà, ma proprio su questa fondamentale informazione raccolta tramite i questionari, gli studiosi hanno tratto la loro conclusione: «La resistenza alle modifiche per alcune pratiche nocive per l'orso sottolinea il fatto che è giunto il momento di coinvolgere gli attori locali per disegnare progetti di coesistenza sempre più funzionali per tutti – spiega Ciucci – Fino ad oggi, le politiche di conservazione sono state calata dall'alto, ed Ente Parco e Regione si sono fatti interpreti di richieste nazionali o comunitarie. La strategia migliore è invece quella di comprendere nella discussione proprio gli stakeholder».
«Quella degli orsi abruzzesi – ribadisce il professore – è una popolazione originale, non reintrodotta, ed è ad elevato rischio di estinzione. C'è molto bisogno dell'atteggiamento positivo e collaborativo da parte dei cittadini direttamente coinvolte, e questa partecipazione si può facilitare coinvolgendo categorie più restie».
Una strategia che si prefigura sempre di più come una necessità, dato che l'espansione dell'areale dell'orso al di fuori dei confini del Parco è considerato uno dei prerequisiti fondamentali per soddisfare le condizioni di vitalità. Se all'interno del Pnalm le comunità sono storicamente abituate alla presenza dei grandi carnivori e dispongono di una serie di strumenti per gestirne la presenza in maniera pacifica, lo stesso non può dirsi per gli altri cittadini, soprattutto in un momento storico come quello attuale.
«I questionari sono stati somministrati tra il 2009 e il 2010 – fa presente lo studioso – ma anche se fossero stati proposti dopo gli episodi del Trentino dubito che sarebbe cambiato qualcosa nelle risposte». Per non vanificare questa disposizione favorevole, è però necessario che anche le comunità umane che fino ad oggi erano meno a contatto con questi animali, abbiano la possibilità di essere ascoltate, e di dialogare con chi è chiamato a imporre divieti o aperture.
Nonostante l'atteggiamento complessivamente positivo dei residenti locali, gli orsi che tentano di disperdersi al di fuori dell'area del Parco devono affrontare delle nuove sfide, anche per evitare che tragedie passate possano riproporsi, per una specie o per l'altra. Per realizzare questo proposito, però, gli esperti non hanno una ricetta precisa, proprio perché deve essere trovata in seno alla comunità.
«A livello globale stiamo assistendo a una ondata di iniziative per la conservazione grandi carnivori, ma il più delle volte riguardano la gestione degli individui problematici, e quasi mai vengono calate all'interno di realtà locali – conclude Ciucci – Non ci sono grandi esempi da prendere a modello perché si tratta di qualcosa in divenire. Sappiamo che ci deve essere maggiore attenzione nel promuovere forme più partecipative di gestione e conservazione, ma tenendo presente che si tratta di di azioni che impattano direttamente sulle persone: regole per tagliare le foreste, modalità di pascolo, di caccia. Si tratta di scelte politiche e sociali che ricadono sul territorio e che se vengono imposte dall'alto possono creare scontento. Solo se decide in accordo con le comunità queste regole possono funzionare al meglio».