"Come mamma di un cane, merito gli stessi diritti dei genitori". E' questo il titolo esatto dell'articolo della giornalista Mary Madigan che sta rimbalzando anche sui media italiani. Una sorta di pamphlet in cui una donna descrive il cane con cui convive come il figlio che non ha avuto e che chiede di ottenere gli stessi diritti che ha una madre che lavora.
Una presa di posizione, da alcuni definita come una "provocazione", che in realtà va letta con attenzione per riuscire a comprendere fino in fondo quanto il messaggio di per sé sarebbe potuto essere istruttivo se solo non lo avesse reso così morbosamente antropocentrico.
Già solo il titolo dell'articolo, del resto, dovrebbe far storcere il naso non solo alle mamme per un paragone che genera da subito fastidio ma anche e soprattutto a chi – donna o meno che sia – condivide la propria vita con un animale domestico. Un cane non è un bambino: su Kodami non ci stancheremo mai di sottolinearlo e solo leggendo come Madigan interpreta la relazione con il suo compagno di vita si comprende quanto abbia trasformato il suo Frank in una spugna delle sue emozioni, un oggetto con i peli su cui riversare i propri sentimenti a seconda dei casi e degli stati d'animo che ha.
Non sono la mamma del mio cane. Siamo compagni di vita
La sua superficiale ironia si perde sicuramente nelle traduzioni fatte sui media non anglosassoni ma risulta comunque scarna e poco credibile anche leggendo bene il pezzo originale. Ciò che emerge, infatti, è che il suo "appello" – seppure toccando punti importanti per far comprendere quanto sia impegnativo vivere con un cane – tende solo a generare polemica in una società umana sempre più affetta dalla carenza di relazioni sane tra sapiens a fronte di un riversare le proprie carenze affettive proprio sugli animali domestici.
Bisogna leggere sempre le fonti direttamente per capire cosa davvero c'è scritto in un articolo e non limitarsi a farsi catturare da un titolo e da versioni in altra lingua più o meno fedeli all'originale. Si tratti o meno di animali, del resto, questa è la regola aurea del giornalismo e vale a maggior ragione quando si ha a che fare con contenuti che arrivano da altre parti del mondo e che colpiscono facilmente chi ha a cuore determinati temi.
«Sono una mamma canina e voglio la stessa flessibilità e comprensione delle madri di bambini umani. Devi andare a prendere i tuoi bambini all'asilo? Lo stesso vale per me: mio figlio va all'asilo nido per cani. È anche molto dispendioso economicamente, 65 dollari al giorno e costa di più se arrivo in ritardo! Quindi, devo arrivare in orario».
E' così che inizia l'articolo, puntando a voler subito chiarire al resto del mondo che esiste questa figura che la giornalista si è auto riconosciuta di "madre canina" (dog's mum), per poi fingere di alleggerire i toni per non attirare le ire di chi i figli nel vero senso della parola ne ha con una premessa in cui scrive: «Prima che inizi a odiarmi, lascia che ti spieghi. Prometto che non sono un mostro di"millenial" che non capisce quanto sia faticoso fare la madre».
In realtà quello che la Madigan poi fa non è altro che continuare sulla scia di un paragone irresponsabile, che non genera empatia da parte di chi non ha animali e che anzi spesso determina l'opposto: un astio forte nei confronti delle persone single o delle famiglie che adottano cani o gatti. Basti solo pensare al Papa e alle sue parole spesso ribadite sull'argomento.
Nel testo della giornalista australiana è costante un antropocentrismo che si esprime chiaramente nel suo desiderio di controllo ossessivo nei confronti della vita di un altro essere senziente. La parola "responsabilità" viene usata solo una volta, poi prende il largo la sua deriva emozionale e di Frank, il suo cane, sappiamo giusto che le fa spendere molti soldi ma anche che fa cacca in casa e che questa cosa la stressa molto.
«Prendere un cane mi ha fatto capire quanto sia difficile crescere figli per le madri che lavorano. Sono spesso sul punto di dire che non posso andare avanti così, mentre il mio cane dorme tutta la notte (purtroppo, però, il conto della mia carta di credito mi ricorda ogni giorno che devo continuare a farlo)», scrive subito toccando il tasto di quanto un cane incida sul costo della vita che spingerà ulteriormente nella narrazione.
La storia che la lega a Frank invece emerge pochissimo, si evince in poche righe e comunque riguarda – ancora una volta – se stessa e non la descrizione di un rapporto in cui si è in due: «Sono cresciuta in famiglia con dei cani che erano come dei fratelli. Frank è arrivato l'anno scorso e da subito ho capito che sarebbe stato la mia unica responsabilità. Credevo si sarebbe trattato però di una relazione semplice, sarebbe stato il mio incrollabile e simpatico compagno. Sarei andata al lavoro e ritornata a casa dove mi avrebbe accolto con la sua coda scodinzolante e tutto sarebbe stato favoloso. Mi vedevo come Carrie Bradshaw con un cane».
Da queste parole inizia a emergere anche la confusa idea del vivere con un cane che ha Madigan: è cresciuta con i cani ma non sa che ognuno è un individuo a sé. Dice di aver iniziato questo percorso certa che sarebbe stata la sua responsabilità unica ma ammette di aver avuto in testa un'immagine stile serie Tv, tanto da vedersi come la protagonista versione australiana di Sex And The City.
Che cosa mai può essere accaduto poi di così grave da sconvolgere quella che, in fondo, è la visione comune a tante persone del rapporto con un cane? Cosa mai Frank ha fatto da stravolgere l'esistenza di una donna che sembrava certa di poter continuare a fare la sua "vita normale"? Beh, senza nemmeno andare oltre verrebbe da dire: semplice, ha scelto di vivere con un cane e sì, un cane ti cambia la vita.
Tanti pensano che iniziare un percorso insieme a un altro individuo sia semplice ma proprio per questo oggi si spinge tanto sull'importanza dell'adozione consapevole che passa anche attraverso la conoscenza dei costi nel far entrare un cane in famiglia e una giornalista come lei, così come riesce a scrivere un articolo di questo tenore, avrebbe potuto ben informarsi prima di decidere di accogliere Frank. Ma Madigan non vuole parlarci di lui, vuole parlare di sé: «Quando Frank è arrivato, tutto è cambiato. Invece dei cocktail bar, sono diventata cliente abituale delle aree per cani e ho scambiato l'alta moda con vestiti che possano resistere nel tempo ai cani che ti saltano addosso. Non ero davvero preparata però al "senso di colpa della mamma" che ti colpisce quando hai un cane. Sì, posso lasciarlo tutto il giorno ma mi sento maledettamente in colpa a farlo. Inoltre, se qualcuno viene a casa per fare qualcosa, dal riparare la lavastoviglie a un'ispezione di routine della casa, devo essere a casa per assicurarmi che tutto fili liscio. Fondamentalmente, vivere con Frank si è dimostrato un lavoro più di quanto mi aspettassi e molto più dispendioso anche in termini economici».
Insomma, Frank porta via tempo e denaro e in più fa sviluppare condizioni emotive pesanti come rimorsi e rimpianti tanto quanto accade per le mamme umane. Vivere con un cane o fare un figlio, dunque, secondo la descrizione di Mary Madigan, per una donna è una condizione di disagio totale, una scelta che determina necessariamente un peggioramento della propria condizione e non invece qualcosa di bello, felice, voluto e desiderato con cognizione di causa e consapevolezza.
Come se non bastasse, poi, c'è un altro aspetto preponderante della relazione con i figli e con i cani che la giornalista australiana ritiene fondamentale condividere per ottenere un supporto totale dal suo datore di lavoro al pari di una madre di figli: la sua ipocondria. Attenzione: la sua ansia dunque e non la reale condizione di tutela del benessere psicofisico del cane che assolutamente dovrebbe essere annoverata tra i diritti inviolabili di un lavoratore di qualsiasi genere e in qualsiasi parte del mondo.
«Per essere chiara io sono ossessionata dal mio cane – scrive e ammette candidamente – Sono un frequentatrice assidua dei veterinari locali, semplicemente perché sono riuscita a riversare la mia ipocondria sul mio compagno peloso. Una volta mi sono presentata dal veterinario in lacrime perché ho trovato un nodulo sul suo corpicino. Sembravo Shirley MacLaine in "Voglia di tenerezza" e pregavo per delle cure immediate. Si è scoperto poi che era solo un effetto collaterale delle sue vaccinazioni annuali».
E poi, non scherziamo, c'è un altro diritto fondamentale da riconoscere alle "mamme dei pelosi": quello di poter continuare a fare festa con gli amici, al pari di una qualsiasi donna che ha avuto figli e che come lei pare che sia stata obbligata a prendersi cura di qualcuno. «Avere un cane occupa molto del mio tempo. Ad esempio, mi ritrovo a correre dopo il lavoro per prenderlo all'asilo o perché mi dispiace di averlo lasciato da solo tutto il giorno – sottolinea ancora – Addio ai drink dopo l'ufficio: io vado dritta a casa dal mio cane. Spesso rifiuto le uscite in compagnia se non è in un ambiente dog friendly perché non posso sopportare di abbandonarlo ulteriormente e il lavoro stesso non mi sembra più così importante. Le mie priorità sono cambiate e tutto grazie a un ometto (sic) che ancora occasionalmente caga in casa».
Ma la giornalista australiana ci tiene ancora a specificare che lei questo "sacrificio" lo fa nonostante tutte le privazioni a cui si è sottoposta, sebbene nessuno la aiuti: «In ogni caso, anche se avere un cane ha aggiunto un carico di lavoro extra nella mia vita (sì, lo faccio con amore ma è comunque lavoro: tutto ciò che implica raccogliere la cacca è lavoro), non posso accedere a nessuna delle flessibilità fornite alle madri con figli umani».
La chiusura, poi, è un capolavoro di retorica, un "pieno" di qualunquismo che fa emergere immagini di donne che invece facendo figli hanno ottenuto di più rispetto a lei che vive con un cane: «Guardo come le mamme che lavorano possono allontanarsi presto, introdurre orari flessibili o lavorare da casa più spesso con assoluta invidia. Mi rendo conto del privilegio che ho nel fare la giornalista: lavoro in un settore che generalmente vuole aiutare, sostenere e responsabilizzare le donne. Quindi, ci sono sistemi in atto per aiutare le mamme a bilanciare tutto ma sento che dobbiamo attivare lo stesso supporto per chi vive con animali domestici».
In chiusura Mary Madigan sembra un po' rinsavire, si ricorda forse del ruolo educativo e informativo che i giornalisti hanno e da che si era definita"dog's mum" finisce con l'ammettere: «So che non sono bambini, so di non essere una mamma e non riesco mai a capire l'intera portata del fardello di chi davvero lo è ma amo il mio cane più di quanto immaginassi fosse possibile. Voglio dargli una vita favolosa e desidero sinceramente che i luoghi di lavoro in tutta l'Australia inizino a portare avanti iniziative per incoraggiare i genitori di pelosi a prendersi il tempo di cui hanno bisogno».
Solo nel finale, così, riesce a sintetizzare quello che avrebbe potuto esprimere senza paragoni inutili, puntando sull'importanza della responsabilità della scelta e sul dato di fatto che ci sono cure e bisogni da rispettare quando si sceglie di condividere la vita con una specie diversa dalla nostra e tutto questo nulla ha a che fare con il rapporto tra genitori e figli umani. Ad oggi in Italia, per capirci, non sono previsti specifici permessi retribuiti per la cura degli animali domestici: assentarsi dal lavoro per necessità importanti o urgenti di salute dei propri compagni di vita potrebbe però diventare possibile e di recente si è verificato un caso che ha fatto grande scalpore e che si spera possa rappresentare un paradigma per il futuro. Su questo tipo di consapevolezza bisogna puntare dunque: su una richiesta che sia chiara, specifica, che metta al centro l'animale in quanto tale e certo sulla base di una relazione affettiva ma nel segno di una condivisione razionale e non mettendoci a fare paragoni arditi che sviluppano solo mistificazioni della realtà e poco interesse rispetto a quelli che davvero sono i bisogni di chi vive con un cane che corrispondono alla sua salute psico fisica, semplicemente.
Come scritto già in un altro articolo, dunque, il messaggio più corretto per tutti, per chi vive con un animale domestico ma comprensibile anche per chi non ce l'ha, è che non siamo i genitori dei cani con cui viviamo ma sicuramente con chi ha un figlio condividiamo pensieri e preoccupazioni perché amiamo e rispettiamo un individuo che fa parte della nostra vita e dobbiamo sicuramente essere interessati a vederlo felice e a contribuire perché davvero lo sia. Su questo non vi è dubbio che bisogna arrivare a una maggiore attenzione da parte di tutti nell'estendere la possibilità di fruire di permessi di lavoro ma nell'ottica di una società sensibile a attenta a chi ha relazioni interspecifiche nel proprio gruppo familiare e relativamente a specie domestiche.
Non paga di essere riuscita a ritornare in una condizione di razionalità, infatti, purtroppo la Madigan nel finale si è portata dietro non più solo i conspecifici del suo Frank (completamente sparito nel suo accorato appello, intanto) ma addirittura pure le lucertole in questo discorso surreale, con la totale superficialità che può rappresentare un lasciapassare per tutti coloro che – a prescindere dall'etologia dell'altro essere vivente – così potranno sentirsi in diritto di "fare proprio" chiunque a questo punto, pure un muflone.
«Non dovremmo nemmeno chiederlo, già dovrebbe essere a nostra disposizione questo tipo di supporto – conclude – Chiamami pure "una pazza che abbaia" se volete, ma non tutti avremo figli e non mi vergogno a dire che abbiamo anche bisogno di spazio per spassarsela con i nostri cani, gatti e persino con le lucertole da compagnia!».