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28 Marzo 2022
14:59

Come la psicologia può favorire un volontariato più consapevole: lo studio

Un recente studio condotto da istruttori cinofili e psicologi, ha rilevato alcuni schemi di pensiero diffusi in un campione di volontari. Da questa analisi è nata la proposta di un corso di formazione interdisciplinare che preveda anche una parte dedicata alla psicologia.

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Il mondo del volontariato con i cani in Italia è un universo particolarmente complesso, formato da una moltitudine di figure, associazioni e privati che operano a diversi livelli con l'obiettivo comune di prendersi cura dei cani che vivono nei canili e lungo le strade del nostro Paese.

Secondo alcune stime, questo settore coinvolge tra le 50 e le 100 mila persone e, sebbene riguardi anche ambiti potenzialmente rischiosi per la salute delle persone e degli animali, la legge italiana al momento non prevede alcuna formazione obbligatoria per chi voglia dedicarsi a questo genere di attività.

Con l'obiettivo di individuare un percorso interdisciplinare adeguato, l'unità di Fisiologia e comportamento animale del Dipartimento di Medicina Veterinaria dell'Università degli Studi di Bari ha condotto uno studio di psicologia applicata a questo settore.

Lo studio, pubblicato lo scorso 21 marzo, ha preso in esame il comportamento di 122 volontari impegnati nell'accudimento dei cani in Puglia.

I partecipanti sono stati sottoposti ad alcuni questionari e ad un corso di formazione riguardo l'etologia e il benessere dell'animale, ma una parte è stata dedicata anche alla formazione psicologica dei volontari, con l'intento di favorire il superamento di alcuni schemi di pensiero disfunzionali rilevati durante lo screening.

Gli stessi questionari sono stati riproposti al termine del corso, rilevando un aumento della flessibilità di pensiero: un fattore che condiziona positivamente le proprie abilità nell'individuare ed accettare le mezze misure nelle relazioni con gli altri. La flessibilità si contrappone, inoltre, alla rigidità, che complica, invece, il dialogo e la collaborazione.

«I risultati di questa ricerca permettono, innanzitutto, di approfondire le figure dei volontari, ma anche di individuare strategie per massimizzare il benessere degli animali che vengono accuditi – afferma Michele Minunno, istruttore cinofilo e membro del team di ricerca – Con questo studio desideriamo creare un ponte tra i diversi modi di fare volontariato e favorire il dialogo costruttivo in un settore che, troppo spesso, si polarizza sulla propria posizione senza aprirsi davvero all'altro».

Dall'idea dello studio allo screening attraverso un questionario

L'idea dello studio è nata a partire da alcune problematiche concrete individuate sul territorio. «Gli interventi svolti autonomamente dai volontari, per quanto siano in buona fede talvolta hanno ricadute negative sugli animali – spiega Gabriele Ferlisi, psicologo e componente del team di ricerca – Quando si decide di fornire risorse alimentari, ad esempio, bisogna avere la certezza che il luogo in cui si deposita il cibo sia adatto e distante dalle strade, dove la presenza dei cani potrebbe causare incidenti automobilistici».

Nel tentativo di evitare queste ed altre situazioni che potrebbero generare effetti negativi sui cani, i ricercatori hanno provato a svolgere percorsi di formazione riguardo il benessere animale, le necessità del cane, i modi più adeguati per intervenire e le azioni che possono risultare pericolose.

«Proprio di fronte all'inefficacia di questa formazione, abbiamo deciso di svolgere uno screening, con appositi questionari, per comprendere le caratteristiche psicologiche di chi si approccia a questo mondo – spiega Ferlisi – Attraverso l'analisi dei dati, abbiamo rilevato la presenza, nel gruppo di volontari che si sono sottoposti ai test, dell'attivazione di specifici schemi maladattivi».

In psicologia, lo schema maladattivo è una sorta di principio di base secondo il quale l'individuo interpreta e filtra la realtà che lo circonda. Questi schemi si formano generalmente durante l'infanzia o l'adolescenza e generano una sorta di resistenza al cambiamento che permane nell'età adulta. Sono forme di pensiero che, pur generando sofferenza, permettono di vedere il mondo in maniera familiare e conosciuta.

«Si tratta di un sistema complesso di ricordi e modi di pensare che dà forma alla nostra personalità e a una percezione del mondo dal quale possono nascere comportamenti disfunzionali – spiega lo psicologo – La presenza di questi schemi, favorisce fortemente la rigidità di pensiero. Di conseguenza, vi è una sorta di difficoltà nell'accettare le cosiddette "mezze misure"».

Gli schemi più diffusi e la formazione mirata

pitbull canile

Gli schemi che, attraverso i questionari, sono stati rilevati con maggiore frequenza sono soprattutto legati a pensieri di sfiducia e abuso, abbandono, instabilità, ma anche alla convinzione della propria grandiosità.

Consapevoli del fatto che questi schemi maladattivi vengono trasmessi agli individui con cui ci si relaziona (in questo caso i cani), i ricercatori hanno deciso di intervenire al fine di promuovere maggiore consapevolezza sul motivo che porta a dedicarsi al volontariato ed imparare, inoltre, a distinguere fino a che punto ciò avvenga per bisogni personali e quanto, invece, per altruismo.

«Osservare il mondo attraverso la paura di venire abbandonati o ingannati espone gli individui a pensieri rigidi ed estremizzati ed è proprio a partire da questi pensieri, secondo la psicologia cognitiva, che si sperimentano emozioni intense – spiega lo psicologo – Per questo motivo abbiamo deciso di intervenire con un corso di formazione che prevedesse apposite lezioni volte a favorire la flessibilità e l'attitudine al dialogo, comunicando in maniera funzionale e riconoscendo che, talvolta, la soluzione è nascosta nelle vie di mezzo».

La terapia scelta dal team dell'Università di Bari si chiama chiamata REBT e può aiutare, in tempi rapidi, a modificare il proprio modo di interpretare gli eventi e ridurre la sofferenza soggettiva.

«Si tratta di un approccio terapeutico che si adatta a sessioni di gruppo e può dare risultati anche in pochi incontri – Spiega lo psicologo –  Al termine del percorso siamo tornati a sottoporre i test ai nostri volontari, rilevando un aumento sensibile della loro flessibilità».

Le conseguenze positive della consapevolezza di sé

«L'aumento della flessibilità nei protagonisti di questo settore non può far altro che favorire la mediazione tra le parti in causa – afferma Minunno – Grazie a questo fattore, aumenta anche la capacità di accettare proposte diverse dalla propria, agevolando anche il benessere del cane che, ricordiamolo, deve rimanere sempre il centro del servizio di volontariato».

La speranza dei ricercatori, ora, è quella di riuscire a diffondere l'abitudine da parte delle associazioni e delle amministrazioni ad offrire formazione interdisciplinare per i volontari, che preveda non solo la conoscenza dell'animale con cui si ha a che fare, ma anche di sé stessi.

«Troppo spesso noi umani utilizziamo i cani come strumenti per le nostre necessità individuali – continua l'istruttore cinofilo – Il rischio, però, è quello di farlo soffrire a causa della nostra mancanza di consapevolezza».

Secondo Minunno infatti, i nostri disagi vengono spesso trasferiti ai cani, i quali finiscono poi per manifestare comportamenti non graditi.

«Se una persona ha paura di venire abbandonata, probabilmente tenderà a desiderare continuamente il controllo del proprio cane. Di conseguenza, il cane potrebbe diventare molto protettivo verso la persona – spiega l'esperto – La protezione si manifesta, però, con comportamenti che l'uomo considera problematici e, spesso, finiamo quindi per puntare il dito sul cane, anche se il problema di base era il terrore dell'abbandono da parte dell'umano».

«Forse è ancora un'utopia, ma immaginiamo un mondo in cui sia possibile una formazione multidisciplinare»

Con questo studio, i ricercatori vogliono invece favorire una riflessione che metta al centro della questione le relazioni con i cani, piuttosto che la propria individualità.

«In futuro vorremmo allargare il campione di studio e testare la funzionalità della terapia anche su gruppi di associazioni che desiderino proporre questo tipo di formazione – spiega Ferlisi – L'obiettivo è quello di creare un protocollo riproducibile, che sia divulgabile e, anche se al momento è forse un obiettivo utopico, renderlo diffuso nel mondo del volontariato».

Minunno e Ferlisi condividono, infine, il desiderio di mostrare al mondo della cinofilia che attraverso una formazione di questo tipo si può migliorare nettamente la vita dei cani, ma anche le relazioni tra gli umani se ne occupano.

«Sappiamo che ognuno può avere la propria utilità e desideriamo che attraverso l'intervento multidisciplinare proposto, le persone vengano messe nella condizione di dare il meglio di sé stessi nel ruolo che più gli si addice», conclude Gabriele Ferlisi.

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Claudia Negrisolo
Educatrice cinofila
Il mio habitat è la montagna. Sono nata in Alto Adige e già da bambina andavo nel bosco con il binocolo al collo per osservare silenziosamente i comportamenti degli animali selvatici. Ho vissuto tra le montagne della Svizzera, in Spagna e sulle Alpi Bavaresi, poi ho studiato etologia, sono diventata educatrice cinofila e ho trovato il mio posto in Trentino, sulle Dolomiti di Brenta. Ora scrivo di animali selvatici e domestici che vivono più o meno vicini agli esseri umani, con la speranza di sensibilizzare alla tutela di ogni vita che abita questo Pianeta.
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