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26 Novembre 2022
14:30

Come gli allevamenti non intensivi migliorano anche la biodiversità vegetale

Nuovi elementi negativi si aggiungono alla descrizione degli allevamenti intensivi: un recente studio afferma che quelli a regime non intensivo hanno una maggiore biodiversità vegetale e una migliore qualità del suolo.

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Di anno in anno la lista dei motivi per cui sarebbe necessario proporre alternative funzionali agli allevamenti intensivi si fa sempre più lunga: non solo sono eticamente insostenibile per il benessere degli animali, ma danneggiano persino la biodiversità vegetale delle praterie dove sono collocati. Infatti, dei ricercatori hanno dimostrato per la prima volta che le praterie britanniche gestite con allevamenti non intensivi hanno in media il 50% in più di specie vegetali e lo stato del suolo è migliore rispetto a quelle con allevamenti intensivi.

Che lo studio si sia svolto proprio nel Regno Unito non è un caso. Il pascolo costituisce una grande parte delle campagne britanniche: chiunque abbia mai preso la Gatwick Express, la linea ferroviaria che rapidamente trasporta migliaia di persone da Londra alla città di Gatwick, si sarà sicuramente ritrovato almeno una volta seduto guardando fuori un finestrino con gli occhi persi nei loro verdi prati.

Nonostante l'utilizzo del suolo non rispecchi la biodiversità vegetale e animale che originariamente dovrebbe insistere sul territorio, comunque questi pascoli ospitano numerose comunità di animali e piante che, però, soffrono enormemente quando l'allevamento è di tipo intensivo. A scoprirlo è stato un team di ricercatori del Lancaster Environment Centre, nel Regno Unito, che ha studiato la differenza di biodiversità vegetale nei due tipi di allevamento e ha pubblicato i risultati della ricerca sulla rivista British Ecological Society.

Come sono nati gli allevamenti intensivi e perché non sono più sostenibili

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Osservando la campagna inglese, dunque, persi nei nostri pensieri mentre contempliamo l'ennesima giornata uggiosa, non possiamo far a meno di notare la miriade di casolari e fabbricati dispersi nelle praterie che ci sfrecciano veloci davanti agli occhi nel nostro viaggio in treno. Se fino agli anni 60 gli animali da allevamento sarebbero stati dispersi nei verdeggianti prati, intorno alla metà del 900 in molti paesi iniziarono velocemente a comparire proprio queste strutture grigie in cui gli animali sono stipati a centinaia.

Il metodo d’allevamento intensivo si sviluppa per far fronte all’aumento della richiesta di consumo di carne e la produzione di antibiotici ha permesso di sottrarre gli animali al pascolo e ammassarli in gran numero in spazi ristretti preservandoli però dalle malattie contagiose. Gli allevamenti intensivi sono diffusi in tutto il mondo, principalmente nei paesi cosiddetti sviluppati, nonostante siano in crescita anche nei paesi in via di sviluppo.

In Italia, ad esempio, praticamente il 90% delle produzioni animali proviene da allevamenti intensivi. Nel nostro Paese, una zona ad alta vocazione zootecnica intensiva è la zona della pianura padana, dove troviamo la maggior parte degli allevamenti suini del Paese e una grande concentrazione di allevamenti bovini sia da carne che da latte.

Le specie animali principalmente allevate con questa metodologia sono i suini, i bovini da carne e le vacche da latte, i polli e le galline ovaiole, i conigli, i tacchini, gli agnelli, e anche i pesci. Nel mondo, ad esempio, circa il 40% del pesce consumato dalle persone è oramai allevato intensivamente.

Dell'insostenibilità etica e ambientale di questa pratica ne ha parlato diffusamente Laura Arena, veterinaria esperta di benessere animale e membro del comitato scientifico di Kodami, proprio in un articolo del nostro magazine. L'esperta spiega che a livello mondiale, circa un terzo della coltivazione di cereali, più del 90% della soia e un terzo del pescato viene utilizzato come alimento per questi animali. La produzione di questa quantità di cereali ha ovviamente un impatto sulla conversione dei terreni naturali in terreni agricoli, ed è quindi collegata alla deforestazione, al consumo d'acqua, all’impoverimento della qualità del suolo e all’estinzione di specie animali selvatiche.

L’impatto ambientale degli allevamenti intensivi, però, va ben oltre. Circa il 15-20% delle emissioni di gas serra del pianeta derivano proprio dal settore zootecnico. Inoltre, i liquami reflui che devono essere smaltiti ogni giorno raggiungono quantità inestimabili, mentre, al giorno d’oggi non siamo ancora preparati per uno riutilizzo etico ed energeticamente funzionale degli stessi. Così, i terreni che circondano gli allevamenti sono di solito fortemente inquinati e la vita è impoverita dalla presenza di questi materiali.

Perché gli allevamenti intensivi danneggiano la biodiversità vegetale

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La lista degli effetti negativi dell'allevamento intensivo sarebbe ancora lunga. Possiamo immaginare una lunga pergamena srotolata con un enorme elenco fatto di dati, percentuali e numeri che spiegano come sia impossibile continuare a utilizzare questa tecnica di produzione alimentare. I ricercatori britannici, dunque, oggi sono inseriscono delle nuove voci alla pergamena dei contro: la minore ricchezza di biodiversità vegetale e l'impoverimento del suolo.

I ricercatori hanno studiato 940 appezzamenti di prateria, confrontando la biodiversità e gli elementi chimici del suolo fra tutte le parcelle selezionate. Questi prati avevano ogni tipo di allevamento al loro interno: terreni a gestione intensiva con poche specie vegetali, prati seminati con alti livelli di fosforo nel suolo, prati con livelli più elevati di specie vegetali e livelli più bassi di fosforo nel suolo e molto altro.

In particolare gli studiosi hanno contato il numero di specie vegetali nelle aree visionate e hanno analizzato campioni di terreno per capire la quantità di nutrienti presenti. Così facendo hanno scoperto che le praterie gestite in modo meno intensivo hanno una maggiore diversità di specie vegetali e, sorprendentemente, questo è correlato con una migliore salute del suolo testimoniato da migliori livelli di azoto e carbonio e un aumento del numero di invertebrati che è possibile trovare sottoterra.

I prati con diverse specie di piante sono in grado di ospitare un'altrettanta viaria biodiversità faunistica di insetti che, a sua volta, attira anche piccoli mammiferi e rapaci, elementi essenziali per la formazione di una rete alimentare in salute, colonna portante del benessere di questi ecosistemi.

Certamente sarebbe impossibile e irrealistico smantellare in un giorno l'intero sistema di allevamento intensivo, ma lo studio britannico sottolinea come già iniziare un graduale passaggio a un tipo di allevamento non intensivo possa portare numerosi giovamenti. Il benessere degli animali che alleviamo è legato a doppio file con quello di tutti glie esseri viventi che popolano lo stesso ecosistema e riuscire a garantire loro delle condizioni di vita dignitose non solo gioverebbe all'intera comunità animale e vegetale, ma anche alla specie Homo sapiens.

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