Fino a non troppi anni fa, uno dei luoghi comuni più ricorrenti quando si parlava di gatti era che fossero degli egoisti, che si legassero all’uomo soltanto in virtù del cibo che questo gli offriva e che, sostanzialmente, al micio importasse davvero poco del legame, dell’affettività, semplicemente approfittava di quello che l’umano di turno gli offriva.
Ho avuto più volte modo di smontare queste tesi scrivendo per Kodami e tuttavia c’è ancora una domanda che, forse, appare inesplorata, ossia: se è vero che per i gatti che vivono con noi non rappresentiamo solo delle macchinette dispensatrici di cibo – eppure su questo io resterei critica perché esistono anche queste dinamiche relazionali -, allora come ci considerano?
Cosa prova un gatto per il suo umano?
La loro percezione deve necessariamente affondare le radici nella storia della domesticazione: i gatti hanno vissuto per millenni accanto agli esseri umani instaurando un rapporto paritario in cui gli uni offrivano un tetto ed un contesto ricco di prede, gli altri mantenevano i nostri spazi – soprattutto quelli agricoli – liberi da topi e altri roditori. Questa è stata la relazione uomo-gatto per millenni ed è in questo modo che si è espressa fino a pochi decenni fa.
La scienza recentemente ha cercato di interrogarsi sulla natura di questo legame che, inevitabilmente, sta cambiando e sta diventando sempre più affettivo e sempre meno di mutuo utilitarismo. È andata a vedere, per esempio, se i gatti sperimentano picchi di ossitocina – l’ormone dell’amore – quando interagiscono con le persone. Le misurazioni hanno rilevato che è possibile registrare l’aumento dei livelli di ossitocina in un gatto che gioca con il suo umano, il che potrebbe indicare che provi qualcosa di comparabile all’affetto (d'altra parte, recentemente uno studio su una specie di arvicole ha dimostrato che possono esserci comportamenti riproduttivi, affiliativi e parentali anche in assenza di recettori per l'ossitocina e dunque il quadro è potrebbe essere assai più articolato).
Altri studi hanno dimostrato che, messi davanti alla scelta del cibo, del gioco e dell’interazione sociale, i gatti possono essere più attratti dall’ultima alternativa, proprio a contraddire il vecchio adagio secondo il quale a loro importi solo di riempire la pancia.
Ancora, esiste tutto un filone di ricerca che sta cercando di capire se tra gatti ed esseri umani è possibile rintracciare gli stessi stili di attaccamento identificati nella relazione madre-bambino e uomo-cane. Rispetto a questo aspetto i punti da chiarire sono ancora tanti però negli ultimi anni sembra si stia arrivando ad una convergenza, se non nel ritenere che gli stili di attaccattamento siano comparabili, almeno nel reputare che un attaccamento si possa effettivamente realizzare.
Cosa pensano di noi i gatti?
In definitiva, alla domanda “Come ci considerano i gatti?” la risposta più onesta sarebbe che ancora ne sappiamo molto poco ma che senz’altro oggi è più chiaro di ieri quanto siano in grado di creare legami stabili e basati su una emotività profonda. Niente male, se consideriamo da dove siamo partiti e dalla quantità di luoghi comuni che ancora oggi sposano l’ipotesi di anaffettività di questi animali.
A mio avviso, quello che ora andrebbe evitato è di spingerci nella direzione speculare, ovvero di dimenticare quanto differente sia la socialità del gatto rispetto al cane e all’uomo e cercare in tutti i modi di dimostrare che siamo, in fondo, tutti uguali, indistinguibili nello sperimentare i legami. Questo significherebbe, ancora una volta, negarci la possibilità di vedere i gatti per quell’universo incredibilmente altro che rappresentano.