Ogni anno ha le sue costanti, come il sempre più teorico cambio delle stagioni, e una di queste è il comportamento corsaro tenuto da moltissime Regioni in materia di calendari venatori. Vediamo di illustrare il percorso che regola l’attività venatoria nel nostro Paese, per comprendere un tema così delicato, che va a incidere direttamente sui diritti di tutti i cittadini e non solo dei cacciatori.
Categoria quest’ultima che pur essendo in costante declino, mantiene inalterato il suo potere di condizionamento della politica. In materia di attività venatoria esiste una legge nazionale, la 157/92 che nel tempo ha avuto varie integrazioni e modifiche, che dovrebbe tutelare la fauna omeoterma (tutti gli animali a sangue caldo) e in via secondaria regolamentare l’attività venatoria, mentre nei fatti è completamente sbilanciata sulla caccia.
La legge nazionale ha lo scopo di fissare un perimetro certo entro il quale le Regioni possono muoversi, con l’autonomia che gli è consentita trattandosi di materia a loro delegata, nel rispetto della legge quadro e con la consapevolezza che la fauna è considerata patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell’interesse della comunità nazionale e internazionale, come recita all’articolo 1.
Le Regioni a loro volta devono promulgare normative che oltre a regolare le varie questioni amministrative locali, potrebbero, volendo, stabilire regole maggiormente severe per tutelare il patrimonio faunistico.
Un’eventualità solo teorica visto che i cacciatori, anche e soprattutto a livello regionale, rappresentano un bacino di voti elettorali fedele e molto compatto, nel dare la preferenza a quei partiti che difendono il loro divertimento. Senza dimenticare tutto il mondo commerciale che gravita intorno alla caccia, a partire da chi fabbrica armi e munizioni per finire con chi vende abbigliamento e accessori.
Fra i compiti delle Regioni vi è quello di stilare il calendario venatorio che regolamenta sul territorio tempi e modi nei quali si può praticare la caccia: data di inizio e di termine, specie cacciabili, orari giornalieri, giornate accessorie di silenzio venatorio e così via. I calendari devono rispettare le direttive nazionali e non possono essere redatti in modo estensivo rispetto alle previsioni della legge quadro nazionale. Dovendo inoltre tenere conto dei pareri dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), in merito alle specie oggetto di caccia.
Con l’obbligo tassativo, troppo spesso derogato, di pubblicare il calendario e quindi di aver terminato tutto l’iter amministrativo previsto per la sua realizzazione, entro e non oltre il 15 giugno di ogni anno. Per consentire al governo di impugnare provvedimenti ritenuti esorbitanti, ma anche per dare tempo a chi ne avesse interesse di impugnare le delibere di fronte ai tribunali amministrativi, cosa che avviene puntualmente ogni anno per molte Regioni, da parte delle associazioni di protezione degli animali e di tutela ambientale.
Una battaglia contro le Regioni che viene ingaggiata ogni anno, spesso su provvedimenti già cassati dai tribunali, ma reiterati ugualmente nella sostanza magari con qualche modifica di forma, spesso con modifiche legislative, inserite in leggi non pertinenti. Un esempio per tutte è quello della Regione Liguria che aveva inserito nella legge regionale di stabilità del 2021 un articolo per allungare, in modo creativo quanto illegittimo, la durata del periodo di caccia di alcune specie, spezzettando le giornate possibili, in modo di prolungare il periodo oltre i tre mesi consentiti.
Su sollecitazione della LAC la modifica alla legge regionale è stata impugnata dal Governo di fronte alla Corte Costituzionale che ha dichiarato questa norma illegittima, non essendo possibile allungare il tempo massimo di durata della caccia su una specie previsto dalla normativa statale. Questo è solo uno dei tanti esempi in cui le Regioni travalicano i poteri conferiti nella delega ricevuta, per favorire il mondo venatorio. Solo quest’anno sono stati impugnati i calendari venatori di diverse regioni, portando quasi sempre a sconfitte anche sulla duplicazione di scelte che erano stati già bocciate in precedenza.
Sono così uscite sconfitte dalle aule dei tribunali amministrativi Campania, Emilia-Romagna, Veneto, Sicilia, Sardegna, Lombardia, Umbria e Marche che avevano adottato provvedimenti illegittimi per accontentare quella piccola fetta di italiani che pratica la caccia: circa 700 mila, su una popolazione di quasi sessanta milioni di persone.
Qualcuno si chiederà il motivo per il quale le Regioni abbiano comportamenti così spesso contro legge e come mai non vengano sanzionate per questi abusi reiterati: la motivazione è semplice quanto disarmante e consiste nel fatto che gli atti politici, come le leggi o la votazione dei calendari venatori, non possono essere oggetto di censura, in nome della libertà e dell’indipendenza di chi è stato eletto con i voti popolari.
In questo modo il paradosso è che i politici si comportano lecitamente come corsari, senza possibilità di essere sanzionati, nonostante le Regioni spendano soldi pubblici per resistere in giudizio a causa delle intenzioni scellerate della politica, mentre le associazioni saranno costrette a impegnare nei ricorsi fondi propri, già sapendo che quasi sempre le spese di giudizio saranno compensate, nel senso che il privato si paga le sue e l’ente pubblico anche, però con i soldi dei cittadini. Davvero un triste insegnamento dato dagli amministratori sull’importanza di tutelare fauna e ambiente, ma anche di gestire in modo rispettoso la cosa pubblica.