Il traffico di cani e gatti provenienti dalla cosiddetta "tratta dei cuccioli" non accenna a diminuire. Cambiano le tecniche e le strategie usate dai trafficanti, che ora puntano su spedizioni più piccole per dare meno nell’occhio e limitare i danni, ma il flusso degli animali importati illegalmente in Italia non si ferma.
Il business vale milioni di euro ed è originato da una domanda che non si riesce a far calare, nonostante sequestri e denunce, grazie a compratori convinti di fare un ottimo affare, poco avvezzi a preoccuparsi dell’aspetto etico di finanziare reti criminali che prosperano proprio grazie a questo commercio.
Dopo ogni sequestro fatto dalle Forze dell’ordine, a seguito di indagini o di controlli occasionali specie nelle zone note per essere i punti d’accesso dei trafficanti al nostro paese, ai centralini degli organi di controllo arrivano centinaia di telefonate di persone che si dichiarano disponibili a adottare uno dei cuccioli sequestrati, non tanto per improvviso amore verso gli animali ma per cavalcare l’opportunità di ottenere un cucciolo di quasi razza – che poi quasi sempre si tratta di animali privi di pedigree – senza sborsare un centesimo.
Gli animali sequestrati, infatti, nella quasi totalità dei casi sono dati in custodia giudiziaria gratuita a cittadini che ne facciano richiesta, non sempre correttamente informati sui rischi connessi all'"affare" che si illudono di avere fatto. Questo rischio, in particolare, è legato alla possibilità di doverli restituire, magari solo dopo qualche mese o peggio dopo qualche anno che gli ex cuccioli sono entrati in famiglia. Per legge gli animali sono beni, al pari di una macchina fotografica o di uno smartphone: quindi il loro valore affettivo e il loro equilibrio non sono tutelati dalla legge, che non prevede particolari attenzioni, né per gli animali, né per i loro affidatari, in caso qualche cosa vada storto nel corso del procedimento giudiziario.
In questo modo finisce che ogni volta che un indagato viene prosciolto, che per un cavillo viene invalidata l’acquisizione delle prove e di conseguenza anche il sequestro dei cuccioli o, fatto abbastanza frequente, l’azione penale si conclude per avvenuta prescrizione gli animali affidati vengono restituiti alla persona alla quale sono stati sequestrati. Che quindi può legittimamente imporre ai custodi di restituirglieli, magari dopo anni in cui sono stati coccolati, curati e giustamente sono diventati membri di una famiglia umana.
Quando questo accade, quando un giudice per le più svariate ragioni decide che l’indagato ha diritto alla restituzione degli animali in sequestro, si apre un nuovo scenario che rappresenta una sorta di doloroso contrappasso per quanti ritenevano di aver fatto un affare, per essere riusciti ad accaparrarsi un cucciolo della (quasi) razza desiderata senza dover sborsare un euro. Il trafficante o presunto tale, a questo punto, ne richiederà la restituzione, non tanto perché sia realmente interessato agli animali in questione ma perché consapevole che il loro valore, grazie al tempo trascorso, si è moltiplicato, consentendogli di chiedere agli affidatari cifre a molti zeri per lasciarglieli.
Sapendo che quasi nessuno rifiuterà di pagare a peso d’oro il cucciolo oramai diventato adulto, pur di non doversene privare. In questo modo gli animali dissequestrati non solo si troveranno contesi fra le due parti, ma consentiranno al legittimo proprietario/trafficante di guadagnare molto di più dalla loro vendita, in modo perfettamente legale, trasformando la disavventura giudiziaria in una miniera che gli farà guadagnare ben più soldi di quelli che avrebbe incassato a suo tempo vendendo i cuccioli.
Qualcuno a questo punto si chiederà se esistesse miglior alternativa a questa possibile conclusione, che eviti da subito il ritorno degli animali proprio alla persona alla quale erano stati sequestrati e la risposta a questo quesito è affermativa. Sarebbe infatti sufficiente che il pubblico ministero chiedesse al giudice per le indagini preliminari di poter vendere i cuccioli sequestrati a causa della loro difficoltà di gestione e conservazione, fissando un valore e depositando il corrispettivo delle vendite su un libretto di deposito che, in caso di condanna, sarà acquisito dallo Stato mentre se l’indagato venisse prosciolto, la somma ricavata gli verrebbe restituita.
In questo modo si eviterebbero sofferenze per gli animali, ci sarebbe maggior consapevolezza per chi decide di acquistare dallo Stato un cucciolo e si eviterebbe l’effetto moltiplicatore delle conseguenze negative di una giustizia spesso incerta. Lo prevede l’articolo 260 del Codice di Procedura Penale.