Gli allevamenti intensivi sono una sorta di bolgia dantesca, fabbriche di proteine dove non vengono rispettate nemmeno le condizioni stabilite nelle famose “5 libertà”, indicate nell’oramai lontano 1967 dalla commissione Brambell, che voleva già allora mitigare le sofferenze degli animali negli allevamenti.
Un’attenzione che in Italia ci è stata di fatto imposta dalla Comunità Europea, in quanto le normative che regolamentano il settore sono tutte di derivazione comunitaria e, seppur imperfette, rappresentano uno strumento operativo che traccia una linea che dovrebbe essere invalicabile.
L’uso del condizionale però è d’obbligo perché molte tutele restano garantite soltanto sulla carta, come dimostrano un numero oramai elevato di inchieste che ogni volta raccontano di accadimenti terribili, con violenze di ogni tipo perpetrate ai danni degli animali. Se già la vita degli animali negli allevamenti rappresenta la negazione del benessere, anche quando risultano garantite le migliori condizioni che la legge riconosce come obbligatorie, ogni ulteriore aggravamento porta a condizioni sempre più inaccettabili, che peraltro la norma sanziona.
Situazioni che vanno ben oltre il limite e che le inchieste televisive e quelle condotte dalle associazioni riescono a dimostrare, spesso con grande facilità, con video che mostrano come le leggi vengano eluse in modo non occasionale ma sistematico. Causando danni e sofferenze importanti agli animali, ma anche grandi rischi per la salute umana, in particolar modo per quanto riguarda la somministrazione illegale di farmaci, dati in modo preventivo e non curativo come previsto dalla legge.
Una pioggia di sostanze somministrate spesso senza alcun controllo veterinario, ma grazie a sanitari complici che procurano i farmaci agli allevatori, che poi praticano il “fai da te”. Un problema serio che sta causando molte morti umane a causa dell’antibiotico resistenza, provocata da un uso abnorme di principi attivi che dovrebbero essere usati solo nelle malattie conclamate e sul singolo animale come terapia, mentre spesso sono utilizzati a pioggia per prevenire infezioni.
Partendo dal presupposto che se un allevatore ha comportamenti criminali significa che non ha alcuna coscienza né attenzione verso la sofferenza, preoccupandosi solo di avere un profitto per sé dalla commissione dei reati, appare evidente che l’anello debole di questa catena di sofferenza siano i veterinari. Quelli che lavorano per le aziende degli allevatori che possono commettere abusi o compiacenti omissioni e quelli pubblici che, troppo spesso, fanno controlli che non arrivano a individuare e, di conseguenza a risolvere, in modo sistemico i problemi.
La difesa d’ufficio dei soggetti preposti ai controlli è sempre la stessa: "non possiamo sapere cosa succede all’interno degli allevamenti quando noi non siamo presenti", ripetono come un mantra alcuni, sia privati che pubblici. Una difesa che non convince, per una serie di buone ragioni, una delle quali è che se questa giustificazione può essere accettata quando riguarda comportamenti violenti messi in atto in modo estemporaneo sugli animali non regge affatto quando i maltrattamenti e le sofferenze sono causate da situazioni strutturali e ambientali.
Come indicano del resto strutture fatiscenti, sporche e sovraffollate, gestione degli animali morti senza rispetto delle normative igieniche, presenza di farmaci lasciati senza controllo, vasche di raccolta dei liquami che percolano e altre situazioni difficilmente occultabili. Queste situazioni/condizioni sono facilmente rilevabili da parte del veterinario aziendale che ha o dovrebbe avere una frequentazione costante dei locali dell’azienda e che ha delle responsabilità sia di natura penale che amministrativa, ma che resta pur sempre un libero professionista a contratto, il cui rapporto di lavoro può essere facilmente risolto in caso di controversie con la proprietà.
Diverso discorso riguarda tutti gli altri organi di controllo e in particolare il servizio veterinario pubblico, che si deve occupare di verificare il rispetto delle normative negli allevamenti, con tutti i poteri impositivi che gli sono riconosciuti dalla normativa ma anche in virtù della qualifica di ufficiali di Polizia Giudiziaria che li pone alle dirette dipendenze della magistratura inquirente, con obbligo di segnalare ogni fatto costituente reato.
Appare di tutta evidenza, visti i risultati, che l’attuale rete dei controlli sia in qualche modo eludibile dagli allevatori, diversamente non si spiegherebbe la facilità con cui sono rilevate una serie di violazioni da quanti fanno giornalismo d’inchiesta. Questa realtà dovrebbe far ripensare ruoli e compiti ma anche rivedere organici e mezzi messi a disposizione delle strutture di controllo che, anche quando lo vogliono, hanno enormi difficoltà nel mettere in campo azioni che possano finalmente portare a una moralizzazione del settore, divenuta oramai indilazionabile, nell’interesse degli animali e in quello dei cittadini.
Interessi che sembrano essere sempre preminenti, come è stato raccontato in merito al principio di precauzione che ha portato al divieto di commercializzazione della carne coltivata, ma che finiscono in soffitta molto velocemente quando parliamo di agricoltura e allevamenti.