Le persone si dimostrano sempre più attente nei confronti delle condizioni in cui vengono allevati gli animali, dopo anni di campagne in cui le associazioni, e non soltanto, hanno cercato di fare il possibile per orientare i consumi verso alimenti sempre più ecosostenibili. In parallelo gli uffici marketing dei grandi gruppi dell’industria degli allevamenti hanno sviluppato strategie per cercare di rassicurare i loro clienti sull’attenzione nei confronti dell’ambiente e degli animali. Arrivando sempre più vicini alle zone di frontiera costituite dalle amplificazioni della realtà sino ad arrivare a vere e proprie mistificazioni, che alcune volte sono state sanzionate.
Se prendiamo come esempio il mercato delle uova ci sono due tipologie di etichettatura che rappresentano un ottimo punto di partenza per dimostrare come i termini possano essere usati, non solo dal marketing, per creare illusioni nell’acquirente sul benessere degli animali, senza che questo corrisponda alla realtà. Parliamo dell’allevamento delle galline ovaiole a terra e di quello all’aperto, che non significa affatto che le galline vengano allevate in situazioni di benessere, ma soltanto che le condizioni per questi animali siano meno afflittive di altre, come accade per quelle allevate ancora in gabbia.
Negli allevamenti a terra la densità può arrivare sino a 9 galline per metro quadrato, uno spazio davvero molto piccolo per poter ipotizzare che, in queste condizioni, possano vivere animali in condizioni di benessere, senza nemmeno bisogno di considerare altri parametri come gli arricchimenti ambientali. In questa tipologia di allevamento, che sulle etichette è indicato dal codice “2”, gli animali vivono in queste condizioni per circa due anni, sino a quando la produzione rallenta e le galline vengono inviate al macello, per poi essere vendute come carni di seconda scelta, che spesso finiscono negli alimenti per gli animali domestici.
Miglior sorte non tocca nemmeno a quelle allevate all’aperto (codice 1), che possono disporre di spazi all’esterno dei capannoni che le ospitano, ma che in realtà molte inchieste hanno dimostrato essere usati solo nei mesi meno freddi e comunque sempre con una densità di 9 animali/mq. Il consumatore che voglia limitare la sofferenza degli animali deve quindi preferire gli allevamenti biologici (codice 0) o quelli che indicano che le galline sono tenute su prato per tutto l’anno, possibilmente scegliendo produttori locali che possano essere anche verificabili. Fidarsi è bene ma non farlo è sempre meglio, nell’interesse degli animali.
Anche il benessere dei bovini è soggetto ad alterazioni comunicative rispetto alle realtà. Gli uffici marketing sanno che cosa stimola l’attenzione dei consumatori e usano le migliori strategie per convincerli sulle buone condizioni di vita: così ci sono le vacche da latte che si fanno la doccia o che possono farsi spazzolare attraverso rulli automatici, molto simili alle spazzole degli autolavaggi. Si omette però di far sapere a chi guarda gli spot che questi animali, nella stragrande maggioranza dei casi, non calpesteranno mai un prato con gli zoccoli e non sapranno mai cosa possa significare brucare l’erba. Su questo terreno, quello delle bugie in etichetta sul benessere animale, si sta combattendo una grande battaglia fra allevatori e associazioni, che stanno chiedendo a gran voce ai ministeri competenti che l’etichettatura volontaria sul benessere animale corrisponda a una situazione veritiera e non illusoria.
Quasi sempre i consumatori di carni e derivati preferiscono non sapere come vivono realmente gli animali che finiscono nel piatto, anche se sta aumentando la consapevolezza che sia indispensabile ridurre il consumo di proteine animali per limitare i danni, ambientali e non soltanto, causati dagli allevamenti intensivi. Sempre più spesso le campagne delle associazioni vengono controbilanciate da quelle degli allevatori, finanziate con fondi comunitari nell’ambito delle azioni della PAC (Politica Agricola Comune) che coinvolgono tutti i paesi della comunità. Anche questo tipo di comunicazione genera equivoci e incomprensioni nel pubblico, considerando che se da una parte l’Europa cerca di applicare misure di protezione ambientale che riducano l’emissione di gas clima alteranti, come il metano, che in gran parte proviene proprio dagli allevamenti intensivi, dall’altra finanzia gli allevamenti intensivi.
Secondo la FAO le emissioni connesse al settore dell’allevamento impattano per il 14,5% sul totale delle emissioni che causano il riscaldamento globale, mettendo la produzione di proteine animali fra i primi settori responsabili dei cambiamenti climatici. Per questo sarebbe tempo che i finanziamenti europei venissero impiegati in modo coerente con gli obiettivi di riduzione dell’innalzamento della temperatura globale e di un più equo e rispettoso uso delle risorse.
Coltivare la terra per produrre vegetali destinati all’allevamento significa sottrarre suolo alla produzione di alimenti per la popolazione del mondo, considerando che la produzione di carne consuma ben più proteine di quelle che restituisce al termine del ciclo produttivo, con un consumo di acqua altissimo. In attesa che arrivi ad essere prodotta su vasta scala la carne coltivata, che risolverebbe il problema sotto il profilo ambientale, non resta quindi che credere meno alle pubblicità e ridurre drasticamente il consumo di proteine animali.