A preoccuparlo di più è la sorte dei suoi 186 cani e gatti e delle veterinarie che li accudiscono nel rifugio aperto a Kabul una quindicina di anni fa. Per questo Pen Farthing, ex Royal Marine del Regno Unito che dopo il rientro dalla missione in Afghanistan ha fondato l'associazione Nowzad per salvare i randagi locali, non ha esitato a metterci di nuovo la faccia e a scendere subito in campo dopo la riconquista del Paese da parte dei Talebani. Farthing ha lanciato Operation Ark e l’obiettivo è doppio: raccogliere 200 mila sterline per affittare un cargo e trasferire in Europa i cani e gatti evacuati dal rifugio e bombardare, con messaggi e tweet, le istituzioni che in questi giorni stanno prendendo decisioni fondamentali per il futuro di tutti quelli che rimangono in Afghanistan o che proprio dall’Afghanistan vogliono fuggire.
«I Talebani hanno dimostrato di non avere a cuore gli esseri umani, figuriamoci il benessere animale – ha scritto sulla sua pagina Facebook, aggiungendo – il problema è che nel nostro rifugio le donne lavorano. Io sono un cittadino britannico e posso tornare a casa, ma il mio staff femminile non ha assolutamente nessun posto dove andare. È devastante pensarci. Sono terrorizzato per loro».
Il rifugio di Kabul
Il rifugio nella capitale afghana si occupa di 140 cani, 60 gatti, 12 asini, due cavalli, una capra e un toro. Lo staff che ci lavora è composto da 24 operatori, tra questi moltissime sono donne che svolgono compiti importanti come addette agli animali e come veterinarie. Sono loro, dopo l’arrivo dei Talebani, ad essere maggiormente in pericolo per aver collaborato con americani e alleati e per aver esercitato un lavoro “pubblico”, a contatto indifferentemente con uomini e donne. «È stato estremamente difficile mantenere gli aggiornamenti in arrivo – spiegano dalla sede londinese della Nowzad – Le comunicazioni sono difficili e la situazione a Kabul è in continua evoluzione. Il telefono è presidiato insieme ai messaggi di Facebook». Tutti però sono certi che Pen non è disponibile a mollare la presa: «Non lascerà l'Afghanistan senza la sua squadra o i suoi 98 cani e 88 gatti. È facile sentirsi impotenti in una situazione travolgente come questa, ma c'è sempre qualcosa che puoi fare e in questo momento potrebbe essere semplicemente twittare o mandare un messaggio. Nowzad può essere un piccolo gruppo di persone, ma ci sono vite che possono essere salvate. 71 vite umane e 186 vite animali».
L’arrivo in Afghanistan. L’incontro con il cane da combattimento e il rifugio per gli asini
L’ex Royal Marine della Corona britannica arrivò con l’esercito inglese nel 2006. Il militare ci mise poco a capire che oltre agli umani, anche gli animali erano abbandonati a se stessi. Il randagismo era dilagante e anche la violenza su cani e gatti randagi. Fu proprio intervenendo per interrompere un combattimento clandestino tra cani nella provincia di Helmand che conobbe un randagio sfruttato per i combattimenti. Non se ne separò più e lo chiamò Nowzad, portandolo con se al rientro in patria. Ma l’interesse per quegli animali sfortunati non si interruppe con il ritorno e lo portò a fondare un rifugio a Kabul e ad adoperarsi per riunire oltre 1600 soldati con i cani e i gatti che avevano salvato e con cui avevano stretto un legame affettivo tale da indurli a non volersene separare neanche dopo il rientro in patria. Donne e uomini che, durante la permanenza difficile in quei territori dove erano stati inviati nel tentativo di pacificare la situazione, si erano legati ai tanti randagi incontrati per le strade polverose e assolate dell’Afghanistan. Dopo i cani è stata la volta degli asini: anche per loro, sfruttati spietatamente come da tradizione per i lavori più pesanti, è nato il primo santuario degli asini in Afghanistan.
Tanti gli abbandoni fra le strade di Kabul
Il randagismo diffuso, la mancanza di sterilizzazione, i lunghi decenni di guerre ininterrotte non hanno creato in Afghanistan un clima positivo per gli animali. E in questi giorni, nel fuggi fuggi generale, spesso sono proprio questi ultimi a subire l’ulteriore dolore dell’abbandono. Sono tanti infatti gli afghani, soprattutto quelli che riescono a scappare dal paese appena proclamato nuovo Emirato Islamico, costretti ad abbandonarli. «Ci stanno arrivando da altri rifugi che stanno chiudendo, da stranieri, da afgani, da persone che amano i loro animali e che hanno dovuto lasciarli – raccontano dal Kabul Small Animal Rescue una clinica veterinaria e associazione che supporta le adozioni di randagi dall’estero. – Abbiamo aiutato a recuperare cani e gatti lasciati indietro durante l'evacuazione frettolosa da case in tutta la città. Spesso arrivano spaventati, sporchi e affamati, ma anche in questo momento più difficile, il nostro staff sta facendo del suo meglio per dargli un ambiente dove si sentono sicuri e amati».
Anche l’Italia si mobilita
«Abbiamo risposto all'appello degli attivisti dell'associazione Nowzad che si occupa di garantire il benessere degli animali in Afghanistan e questa mattina, in questo momento di enorme difficoltà, abbiamo deciso di dare il nostro piccolo contributo, effettuando una prima donazione che speriamo possa essere loro d’aiuto» è il messaggio dell’Associazione Cave Canem che opera nel recupero di cani maltrattati e nel loro reimpiego in operazioni socialmente utili. Mentre l’Enpa ricorda la storia a lieto fine di Bruno e Chiara, i due pastori del Caucaso che da Bala Murghab furono portati in Italia nel 2012 grazie all'associazione italiana e a Nowzad. Abituati a vivere sin da cuccioli con i militari italiani di stanza in Afghanistan, avevano rischiato di rimanere “orfani” dopo l’abbandono del contingente. Il loro salvataggio si deve a Gianluca Missi, un militare della base italiana che ha contattato ENPA prima della sua ripartenza chiedendo di fare in modo che i due potessero essere espatriati in Italia. «Ad attivarsi fu proprio la presidente dell’Enpa Carla Rocchi, che con la collaborazione del Ministero della Difesa è riuscita a far trasferire i cani prima a Kabul, ospitati dall’associazione Nowzad che ha sorvegliato la loro quarantena obbligatoria e poi li ha successivamente accompagnati in Italia, dove sono stati felicemente adottati».