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13 Dicembre 2023
16:04

Addio a Mowgly e Umberto, cani liberi avvelenati che erano sopravvissuti alla strage a Taghazout del 2018

Nel sud del Marocco, in un piccolo paese di pescatori, sono stati avvelenati due cani simbolo della comunità locale. Non è la prima volta che succede e accade anche in Italia ma Umberto e Mowgly erano sopravvissuti alla strage del 2018 ed erano amati e rispettati da marocchini e turisti.

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Questo è un addio a due amici che sono morti, sopravvissuti una volta alla ferocia dell’uomo ma condannati inesorabilmente a finire la loro esistenza a causa di essa. Umberto e Mowgly erano due cani liberi di Taghazout, paesino marocchino sulle coste dell’Atlantico pochi chilometri a nord di Agadir. Di questo luogo, di loro due e di tanti amici cani che ho incontrato lì ho scritto diverse volte, addirittura a loro ho dedicato il mio primo editoriale su Kodami e entrambi sono anche tra i protagonisti di un romanzo, “L’abbandono”, che ho da poco pubblicato con Round Robin Editore e i cui diritti d’autore vanno a supporto di rifugi e canili con approccio rivolto al benessere del cane e percorsi di adozione consapevole.

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Umberto e Mowgly erano sopravvissuti alla mattanza dell’aprile del 2018: uomini armati, durante la notte, erano scesi per le strade del paese e avevano massacrato gran parte della comunità di cani liberi che conviveva serenamente con la popolazione. In quelle ore di terrore, persone locali e turisti si erano opposti interponendo i loro stessi corpi tra gli animali e i loro simili pronti a sterminarli, riuscendo così a salvare molti di loro tra cui, appunto, Umberto e Mowgly che erano rimasti poi sul territorio come simbolo della “resistenza” e della forza dell’alleanza che si crea tra persone e cani.

Nel febbraio 2023 ero ritornata a Taghazout con Stray Dogs International Project, l’associazione italiana che ha attivato sul territorio progetti di monitoraggio e censimento dei cani liberi proprio per dimostrare con dati scientifici alla mano quanto sia ancora possibile condividere aree anche urbanizzate insieme a cani che sono integrati con gli umani e con l’ambiente. Avevamo così incontrato di nuovo Mowgly e Umberto i cui nomi erano rappresentativi della loro personalità.

Mowgly era una cagna dal pelo nero con dei magnifici "calzini" a pois, macchie che aveva anche sul petto. Nel tempo aveva dimostrato come e quanto anche un cane cambia il suo modo di essere e relazionarsi al mondo crescendo. La prima volta che l’avevo incontrata si era dimostrata subito amichevole con noi stranieri chiaramente amanti dei cani, mentre con i locali e gli altri cani aveva un atteggiamento respingente e anche possessivo nei confronti di chi, come noi, l’aveva accolta in una comitiva di umani e cani liberi che condividevano lunghe giornate insieme a passeggiare e poi il riposo al sole sulle lunghe spiagge dell’Atlantico che bagnano la costa meridionale del Marocco.

Mowgly l’avevo dunque lasciata in una situazione in cui non era particolarmente ben vista ma una ragazza era riuscita a salvarla durante la notte della strage e l’aveva accolta nella sua casa insieme ai suoi due cani di famiglia. Quel momento di terrore, così, si era trasformato per questa cagnona dal nome mutuato dal Libro della Giungla in una occasione per comprendere che aveva tutte le caratteristiche per diventare un individuo capace di gestire con maturità e consapevolezza le relazioni con gli umani e con gli altri suoi simili, tanto da ritornare libera in strada e diventare la mascotte del paese.

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Umberto, dal canto suo, si chiamava così perché, come ho scritto nel romanzo in cui anche è uno dei protagonisti principali «…quando ci vede si avvicina digrignando i denti per… sorridere. Da questa sua caratteristica cerimonia del saluto deriva il nome che Lorenzo e Clara (i fondatori di Stray Dogs, ndr) gli hanno dato: “Sai che c’è un tale Umberto Smaila, in Italia, che ti assomiglia?” gli hanno detto e da allora lui ha capito che quando sente quella parola “gli italiani” lo stanno chiamando e si avvicina col sorriso». Anche i marocchini avevano notato che Umbi approcciava così agli esseri umani, tanto che il suo nome a Taghazout era “Smiley”. Quando ho incontrato di nuovo anche lui, lo scorso febbraio, non aveva perso l’abitudine e con i pochi denti che gli erano rimasti non lesinava mai di sorriderci venendoci incontro.

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Umbi era stato salvato la notte della strage nel 2018 e spostato in canile a Agadir. Le persone che lo avevano portato via dalla ferocia dei fucili erano state poi pregate proprio dalla popolazione locale di far ritornare il cane in strada: socievole e tranquillo, Smiley mancava agli umani che lo incontravano ogni giorno. Un patto tra i volontari e alcuni residenti, con i secondi disponibili a tenerlo d'occhio per evitargli una brutta fine in quei giorni di pallottole e sangue, aveva portato di nuovo il buon Umberto a girare libero e felice per le strade del suo paese, il luogo che di diritto già solo di nascita gli spettava e a continuare la sua vita. Fino a qualche giorno fa, quando anche lui – come tanti altri – è caduto nella trappola di un cibo avvelenato da mani di altri umani, purtroppo così simili a coloro che invece lo hanno amato e rispettato.

Mowgli e Umberto facevano parte del  progetto di sterilizzazione, vaccinazione e monitoraggio portato avanti dalle associazioni locali. Insieme a loro c'erano tanti altri cani diventati stanziali di nuovo: proprio a dimostrazione che le stragi non servono a nulla, nemmeno a non far tornare animali liberi sul territorio, cosa che le autorità proprio non riescono a capire o fanno finta di non voler capire, continuando a perpetrare sempre la stessa “strategia” per eliminare i cani e poi… eliminarli di nuovo.

Mantenere invece una popolazione canina stabile consente che non vi sia un aumento del numero di soggetti, funzionando loro stessi da “guardiani” del territorio e dunque come deterrenti per l’avvicinamento di altri soggetti. Oltretutto, come avevo già raccontato in un video reportage dedicato proprio ai cani liberi di Taghazout, la cura degli animali di strada aveva portato a una maggiore consapevolezza da parte dei cittadini nella gestione della spazzatura e anche ad aumentare i controlli sanitari umani proprio seguendo l’esempio dei cani, visti come simbolo di cura e tutela della salute pubblica grazie a un “orecchino” che li identificava come cani in buone condizioni di salute.

Umberto e Mowgly erano amati e rispettati dai marocchini che vivono a Taghazout e dai turisti di passaggio: sono tanti i messaggi di commiato che si alternano su pagine social di locali (bar, ristoranti, negozi) e di persone che li conoscevano e li accoglievano con simpatia in giro per le stradine del paesino di pescatori. Erano “volti noti”: amici con cui scambiarsi un saluto durante le giornate calde di un luogo che continua a subire una forte pressione antropica dovuta alla continua costruzione di nuove strutture sempre più di lusso e alla espropriazione di case e terreni da parte di chi lì sta devastando ambiente e fauna a fini di lucro per arrivare a sfruttare sempre di più il business del turismo.

Mowgly e Umberto non sono i soli cani morti per avvelenamento in questi giorni nell’area: Morocco Animal Aid, associazione che continua a lavorare sul territorio purtroppo accumulando cani e gatti all’interno di un rifugio che sta scoppiando e non riuscendo più a mettere in atto politiche concordate con le autorità locali che si disinteressano delle condizioni degli animali, sta facendo la triste conta degli individui finiti avvelenati. Fonti locali riportano che nelle stradine del paesino non ci sono, ad oggi, più cani ma la verità è che presto arriveranno altri individui, come già successo, e senza un progetto lungimirante nulla cambierà se non in peggio.

Anche in Marocco, infatti, come in tante altre parti del mondo è stato già ampiamente dimostrato che la gestione dei cani liberi non può essere risolta con la sistematica uccisione ma che solo progetti di TNR (Trap-Neuter-Return) che consistono nella cattura, sterilizzazione, vaccinazione e reimmisione dei cani sul territorio funzionano a lungo termine.

C’è un aspetto che infine ci tengo a sottolineare, per rendere onore ai compagni di viaggio canini che ho avuto la fortuna di conoscere lì a Taghazout ma anche in altre parti del mondo e che meritano solo di essere ricordati come simbolo della libertà a cui ha diritto chiunque nasca su questo pianeta.

E’ un’ultima considerazione necessaria, dal mio punto di vista, perché spero si eviti, nei commenti, di tacciare questa storia come una “questione culturale” visto che si svolge lontano dall’Occidente.

Queste mattanze non accadono solo nel “Sud del mondo”, anzi. Avvengono anche a pochi passi da casa nostra, non c’è bisogno di guardare così lontano dai confini nazionali. Lo abbiamo fatto in passato per molto tempo e continuiamo a farlo: solo pochi giorni fa abbiamo raccontato qui su Kodami la storia di Black, un cane libero del comune di Santa Venerina, in Sicilia, che il 2 dicembre è stato investito da un pirata della strada. Il giorno dopo, il gruppo di cani di cui faceva parte sono stati tutti avvelenati e essere investito per lui è stata così una salvezza, paradossalmente.

A Umbi, Mowgly e a tutti i cani liberi del mondo va il ringraziamento di tanti, come me, che hanno avuto il privilegio di conoscerli e per loro come per tutti gli umani e i cani che sanno camminare nel mondo insieme dedico le parole di Marguerite Yourcenar:

Gli animali hanno diritti e dignità come te. E' un ammonimento che suona quasi sovversivo. Facciamoci allora sovversivi: contro ignoranza, indifferenza, crudeltà

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Diana Letizia
Direttrice editoriale
Giornalista professionista e scrittrice. Laureata in Giurisprudenza, specializzata in Etologia canina al dipartimento di Biologia dell’Università Federico II di Napoli e riabilitatrice e istruttrice cinofila con approccio Cognitivo-Zooantropologico (master conseguito al dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università di Parma). Sono nata a Napoli nel 1974 e ho incontrato Frisk nel 2015. Grazie a lui, un meticcio siciliano, cresciuto a Genova e napoletano d’adozione ho iniziato a guardare il mondo anche attraverso l’osservazione delle altre specie. Kodami è il luogo in cui ho trovato il mio ecosistema: giornalismo e etologia nel segno di un’informazione ad alta qualità di contenuti.
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